venerdì 5 dicembre 2025

GIUSEPPE ARLOTTA: DALL'ELEGANZA DELLO SMERALDO AL RESPIRO DEL MARIELLA ( racconto di cinema e di strada )

                   Giuseppe Arlotta torna alla forma racconto, due cinema , due stagioni e il Far West, buona lettura !!




DALL’ELEGANZA DELLO SMERALDO AL RESPIRO DEL MARIELLA

 
                                                  (racconto di cinema e di strada)
 
Era un’epoca in cui i film del Primo Canale (l’attuale Rai 1) iniziavano solo dopo il telegiornale e il mitico Carosello, tra le 20:45 e le 21:00. Bastava quella breve sigla animata per farci capire che la giornata era davvero finita: al mattino ci aspettava la scuola, e noi venivamo puntualmente mandati a dormire, mentre in salotto restavano svegli solo i grandi, loro sì autorizzati a godersi quei film che per noi rimanevano un mistero. Forse anche per questo, per soddisfare la nostra sete di avventure e dare spazio a un immaginario che premeva per allargarsi, cercavamo rifugio nel buio accogliente delle sale cinematografiche.
 
 
 
Così, nei pomeriggi liberi o nei giorni festivi di primavera ed estate, la meta privilegiata diventava il Cinema “Smeraldo”, a due passi da Villa Dante, che per noi era un vero teatro di scorribande, con i suoi viali ombrosi e le panchine gonfie di racconti. Superato il ponte della ferrovia in via Consolare Valeria, si entrava nel quartiere di Provinciale; e, poco prima di arrivare alla sala di proiezione, c’era l’immancabile sosta sul marciapiede dirimpetto alla chiesa rionale, dove una vecchina, curva come un gancio, esponeva su un banchetto il suo tesoro di caramelle colorate: dure alla menta o all’anice, morbide come le liquirizie arrotolate, e mou avvolte in carte lucide che catturavano la luce del pomeriggio. Quelle tinte zuccherine facevano venire l’acquolina al solo guardarle, ma per noi avevano anche un’altra funzione, ben più utile.
 
 
 
Dietro quella facciata innocua, infatti, si nascondeva un commercio molto meno infantile: la vera attività dell’anziana venditrice non erano le caramelle, ma le sigarette di contrabbando, che offriva con un sorriso sghembo e un’occhiata di complicità che sembrava escludere il mondo degli adulti. Con centocinquanta lire ci si ritrovava in mano un pacchetto di Astor — “quelle che fanno male al cuore”, recitava la leggenda — oppure le dorate Benson & Hedges, forti e dall’aroma deciso, o ancora le più comuni HB o Marlboro. E così, dopo un rifornimento degno di una spedizione — caramelle in abbondanza e un pacchetto da venti a testa — ci incamminavamo verso l’ingresso del cinema, già pregustando l’effetto del buio in sala, quel momento in cui il mondo sembrava fermarsi per lasciare posto solo alle immagini.
 
 
 
Allo “Smeraldo” le proiezioni erano continue, e nessuno costringeva a uscire al termine del film: si restava al proprio posto, lasciando che la sala si riempisse e si svuotasse intorno a noi, apprestandoci a rivivere le scene che più avevano entusiasmato. In quegli anni fumare al cinema non era vietato, e il fumo delle sigarette si mescolava al fascio del proiettore creando una nebbiolina dorata che dava alle immagini un’aura quasi irreale. Seduti nelle file laterali, alternavamo una boccata di tabacco a una caramella usata con prudenza, sapendo che sarebbe stata l’unica protezione al momento del rientro a casa. Dosavamo lo zucchero come piccoli strateghi, coscienti che bastava un soffio di odore sospetto per far crollare qualsiasi nostra giustificazione.
 
 
 
Sul grande schermo scorrevano spesso film di seconda visione: imitazioni di James Bond, commedie scatenate di Franco e Ciccio, storie d’avventura che, pur viste mille volte, non perdevano mai il loro fascino. Uscivamo che il pomeriggio aveva già cambiato colore; il banco della vecchina era sparito, e noi rientravamo giusto in tempo per la cena, ancora immersi nell’eco di quelle immagini.
 
Eppure, tra le sale cinematografiche che scandivano la geografia del nostro piccolo mondo, ce n’era un’altra che aveva un sapore diverso — più ruvido e popolare — come se fosse il cuore pulsante di un quartiere rimasto fuori dal tempo. Era il “Mariella”: meno elegante dello “Smeraldo”, ma, a suo modo, più vivo, più invernale. Lì dentro non ci si limitava a guardare un film — si partecipava. Il pubblico diventava parte integrante dello spettacolo, un contrappunto di urla, risate, commenti a voce alta e fischi che accompagnavano ogni scena con una spontaneità che oggi sarebbe impossibile anche solo immaginare.
 
 
 
Il freddo dei pomeriggi impastati di scirocco e umidità sembrava amplificare la nostra voglia di avventure. Quelle domeniche sospese, in cui si cercava un pretesto per scappare dalla noia, trovavano spesso la loro destinazione nel “Mariella”, poco oltre la linea invisibile che segnava il confine con il Villaggio Aldisio. Una sala inquieta, un po’ burbera, ma attraversata da una vitalità che si avvertiva già all’esterno durante l’attesa per entrare.
 
 
 
L’ingresso, largo ma immerso in una penombra polverosa, emanava l’odore tipico dei cinema popolari: un miscuglio di fumo di sigaretta, stoffa consumata e zucchero caramellato. Il bigliettaio, nascosto dietro il vetro opaco, strappava i tagliandi senza nemmeno guardarci, come se ormai facesse parte dell’arredamento. Salivamo in galleria — pagando il supplemento, poche lire in più ma spese con convinzione — perché da lassù si vedeva meglio e, soprattutto, si evitavano le turbolenze della platea, dove l’agitazione iniziava ben prima della proiezione, quando la sala si trasformava in un autentico campo di battaglia parallelo allo schermo. Già, perché in quel cinema ogni film era una sorta di guerra nella guerra, un assalto nell’assalto, e noi, dall’alto, assistevamo, spesso anche partecipi, a quel doppio spettacolo con lo stesso entusiasmo con cui seguivamo la trama del film.
 
 
 
Dentro era un brulicare di rumori: sedie che scricchiolavano, bambini che correvano tra le file, volute di fumo che salivano pigre verso il soffitto. Lo schermo, leggermente ingiallito, sembrava più grande di quanto fosse realmente, forse perché lo guardavamo con occhi pronti a inseguire orizzonti lontani. E quando le luci si affievolivano lentamente fino a spegnersi, in quel calo di buio si percepiva la promessa di un luogo da esplorare, e noi eravamo pronti a entrarci. Ricordo ancora le vecchie pellicole a colori in Panavision della fine degli anni ’50, quando il cielo si spalancava sopra scenari western capaci di insinuarsi sotto pelle, vasti e ardenti come un respiro trattenuto troppo a lungo.
 
 
 
Bastavano le prime note della colonna sonora per far tacere ogni brusio. Sullo schermo, per tre quarti della proiezione, si susseguivano immagini, dialoghi e situazioni di vario genere, ma nella parte finale il copione era sempre lo stesso: un fortino assediato e i pellerossa che attaccavano. Il forte sembrava resistere a fatica. Le palizzate di tronchi, annerite dal fumo, tremavano sotto gli urti delle scale di legno gettate dagli assedianti armati di tomahawk e coltelli. Gli indiani, dipinti di guerra, emergevano da ogni direzione come onde di un mare ostile: criniere nere e piume che sventolavano come vessilli selvaggi, lance che trafiggevano l’aria con fischi minacciosi. Galoppavano in cerchio, scoccando frecce infuocate che si conficcavano nei tetti. La colonna sonora diventava monodica: un tamburo martellava un ritmo ossessivo, come un cuore che batte sempre più forte. Le immagini si alternavano frenetiche: i cavalli al galoppo sollevavano nuvole di polvere, le giubbe blu si piegavano in avanti con i fucili puntati verso i nemici, le sciabole brillavano al sole. Poi il contrattacco, le urla, gli spari — e tutti, seduti su quelle poltroncine consumate, stringevano i pugni come se fossimo lì, con loro, dentro quella battaglia. Qualcuno, in un eccesso di immedesimazione, sussurrava un “semu persi”.
 
 
 
La cinepresa seguiva le cariche dei pellerossa e, immediatamente dopo, indugiava all’interno del forte, dove un capitano con il volto affaticato e rigato di sudore impartiva ordini urlando sopra il fragore degli spari. Accanto a lui, una ragazza teneva la mano di un ferito, come se quel gesto potesse fermare il tempo e la morte, anche quando arrivava il medico e le ordinava di spostarsi. “Non posso lasciarlo!” gridava. E in sala, al Mariella, calava una quiete strana, quasi rispettosa, rotta solo dal ronzio meccanico della pellicola e da un “minchia” urlato con angoscia e un filo di commozione da uno degli adulti in galleria. Quella sospensione inattesa avvolgeva la sala: un’aria di rispetto, di trepidante speranza. Perfino il rumore della pellicola sembrava rallentare, come se il proiettore stesso trattenesse il fiato.
 
 
 
Poi tutto cambiava. Velocemente, il fuoco si propagava sui tetti, mentre donne e soldati portavano secchi d’acqua per spegnere le fiamme che pericolosamente si avvicinavano alla polveriera. Le difese del forte vacillavano sotto la spinta degli assedianti. Il suono del tamburo accelerava ancora. E noi con lui. La platea diventava uno specchio imperfetto della battaglia: qualcuno stringeva i braccioli come se fossero le palizzate del forte; altri inveivano contro i nemici sullo schermo come se potessero spaventarli davvero. Dai posti più bassi, i ragazzini, presi dall’entusiasmo, lanciavano verso la galleria cartocci vuoti, imitando il gesto di chi scocca una freccia; altri, dall’alto, tiravano bucce d’arancia come fossero colpi di fucile.
 
 
 
Ma il momento che tutti aspettavamo arrivava sempre allo stesso modo: all’improvviso, limpido e inconfondibile, lo squillo di una tromba. Come una promessa che avanza. Lontano ma in avvicinamento si udiva il classico e indimenticabile tatatta-tattatatta-tatattatatata, un suono metallico che tagliava l’aria e il cuore. Sullo schermo la cavalleria lanciata al galoppo irrompeva in un turbine di luce, polvere e sole si mescolavano, sciabole sguainate scintillavano come lampi. Credo che nessuno dei registi o dei produttori di quei film avrebbe mai potuto immaginare proiezioni così visceralmente vissute. Per loro erano storie costruite a tavolino, destinate a intrattenere. Per noi, invece, erano universi in cui entrare di corsa, con tutta l’emozione possibile.
 
 
 
Ciò che accadeva in sala aveva un effetto devastante. Un coro di voci rompeva il silenzio al grido di «Arrìvunu i nostri!», seguito da un boato che faceva vibrare le pareti. Dai primi posti della galleria partiva una pioggia di oggetti: palline di carta stagnola, pacchetti di sigarette vuoti, cartacce di caramelle, pezzi di panini — avanzati delle amorevoli merende preparate dalle mamme — scagliati con precisione militare. Qualcuno batteva i piedi per imitare il galoppo, altri urlavano “Annamu avanti!” come se volessero spingere i cavalli dentro lo schermo, e altri ancora sventolavano i cappotti come bandiere. Sentendo la tromba suonare la carica, ci si alzava quasi tutti in piedi, senza accorgercene, come se quell’ordine fosse rivolto a noi. Non era solo cinema: era un impulso condiviso, un’onda di entusiasmo che ci trascinava e ci faceva sentire parte dell’assalto, della battaglia, della vittoria.
 
 
 
Non so quante volte, in quei pomeriggi, mi sono riparato con le mani da lanci degni di un cecchino professionista: pensavo che forse non c’era differenza tra quel forte e la nostra sala — assediati anche noi, ma certi che la svolta sarebbe arrivata proprio quando tutto sembrava perduto. E proprio in quei momenti, il Mariella esplodeva e scendeva in guerra. Quando il forte resisteva, era come se resistessimo anche noi; quando i soldati travolgevano gli assedianti, era come se la salvezza fosse giunta per l’intero cinema. La polvere del campo di battaglia si mescolava al fumo delle sigarette, il fragore dei colpi alle grida scomposte del pubblico. In quelle domeniche d’inverno, tra l’odore di mandarini sbucciati e il calore della sala gremita, si creava una specie di alleanza invisibile tra gli spettatori e i soldati sullo schermo. Combattevamo come se l’esito della battaglia dipendesse davvero dalla nostra presenza. Le urla si moltiplicavano: c’erano incitamenti, risate isteriche e persino qualcuno tra i più esagitati che, tra gli applausi, gridava: “Mmazzamuli tutti!”, non per spronare gli attori, ma per condividerne la vittoria. Era un impulso primordiale, quasi rituale, che trasformava una semplice proiezione in un evento collettivo. Guardavamo il film e, nello stesso istante, la platea: due battaglie intrecciate, due mondi che si riflettevano e si alimentavano. Poi, quando il portone del forte si spalancava e la cavalleria irrompeva tra gli applausi reali e fittizi, mischiati in un’unica frenetica ovazione, la tensione si spezzava in un’esplosione: una scarica liberatoria che travolgeva tutto il cinema. Sembrava quasi che la vittoria appartenesse a tutti, come se quelle pareti scrostate avessero combattuto e vinto insieme a noi.
 
 
 
Quando uscivamo nella sera fredda, ancora con l’eco dell’assedio nelle orecchie e, nelle mani, a volte un po’ del cartoccio spiegazzato che avevamo usato come “munizione” contro la platea, portavamo con noi una sensazione difficile da descrivere: una sorta di avventura condivisa, di fraternità improvvisata, come se per un paio d’ore fossimo stati davvero nel Far West. Non era una storia proiettata su uno schermo: era un campo di battaglia in cui ognuno interveniva a modo suo. C’era chi tifava urlando come in Curva Sud al campo sportivo Giovanni Celeste, chi lanciava qualsiasi cosa avesse a portata di mano per “far parte dell’azione”, e chi, come i vecchi del quartiere, se ne stava immobile, con le braccia conserte, ma con gli occhi che brillavano a ogni carica della cavalleria. Non era solo intrattenimento: era un rito. Un momento in cui la realtà di quel quartiere, con le sue crepe e i suoi piccoli drammi quotidiani, veniva sospesa.
 
 
 
Sulla via del ritorno ridevamo, ci spintonavamo, ma dentro, ognuno a modo suo, portava via la sensazione di aver assistito a qualcosa di più grande di un semplice film. L’aria sapeva di polvere e benzina, i rumori della strada sembravano lontani, come se fossimo ancora in quell’Ovest immaginario appena lasciato. Bastava uno sguardo d’intesa e il gioco ricominciava: le mani si trasformavano in pistole, con il pollice alzato e l’indice teso, il medio come leva d’appoggio; dalla bocca uscivano colpi secchi, “pàh-pàh”, “bang-bang”, e ogni sparo era accompagnato da cadute plateali, corse a zig-zag, assalti improvvisati. Il marciapiede diventava prateria, i portoni saloon, e noi cavalcavamo invisibili destrieri lanciati all’inseguimento di nemici immaginari. Correvamo da un lampione all’altro, nascondendoci dietro i muretti come fossero le palizzate del forte, tendendo agguati agli “indiani” invisibili che popolavano la nostra fantasia. Ogni colpo andava a segno, ogni caduta era una recita degna di un eroe di celluloide.
 
 
 
Ripensandoci oggi, forse la magia stava tutta lì: in quella capacità di portarsi dietro il film, di non lasciarlo chiuso dentro il buio della sala, ma di farlo vivere ancora, strada facendo, finché il sole, cominciando a calare, ci ricordava che l’avventura del West era giunta al termine. Forse, in fondo, eravamo già consapevoli che quelle sparatorie fatte con le dita, quelle cavalcate senza cavalli e quelle vittorie contro nemici che esistevano solo nella nostra testa erano il modo più semplice — e più vero — di essere felici, perché in quell’età bastava crederci per rendere reale qualunque impresa. Non era solo un gioco: era un modo per sentirci parte di una storia più grande, con la certezza infantile che, all’ultimo momento, i “nostri” sarebbero arrivati a salvarci.
 
Giuseppe Arlotta
 
4 dicembre 2025
 

2 commenti:

  1. Scusate, volevo commentare prima ma avevo ancora il testa il rullo dei tamburi e l'indice fumante per i troppi colpi sparati. Bravo, veramente bravo.

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  2. L'emozione si rinnova oggi su di un altro schermo: quello dello smartphone
    Beppe

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