Giuseppe Arlotta torna con la memoria a Librizzi e regala a Mauro at Large un nuovo racconto di ambientazione siciliana, buona lettura! Se avete amato Pomodori Verdi Fritti alla fermata del treno amerete questo " Bar di sotto " con le sue voci e i suoi sapori.
IL BAR DI SOTTO
(un angolo di mondo in cui il tempo scorreva piacevolmente lento)
Non saprei dire quando vi entrai per la prima volta. I ricordi dell’infanzia, a volte, non hanno contorni netti: si confondono con la luce, con i suoni, con gli odori. Ma so che era un pomeriggio d’estate, e nell’aria quieta si udiva da lontano il frinire delle cicale. Il paese sembrava immobile, come trattenuto in un respiro lento, tra la quiete e la promessa del tramonto. Scendevo piano, tenuto per mano da mio padre, lungo la stradina che da piazza Catena portava all’ingresso del paese, e il profumo dolce del bar mi accolse prima ancora di entrarvi: un misto di zucchero, caffè e cioccolato che si mescolava al sentore della strada calda. Dentro, Don Peppino – il barista - era al suo posto, dietro il bancone, la camicia arrotolata fino ai gomiti e lo sguardo sereno di chi conosce tutti e non dimentica nessuno. Quel giorno — o forse in molti giorni simili — il “bar di sotto” entrò nella mia memoria come una casa aperta: un luogo di dolcezza e voci, di gesti semplici e sorrisi sinceri.
Negli anni seguenti lo frequentai spesso, fino alla tarda adolescenza, come si torna in un porto sicuro dopo ogni piccola traversata dell’infanzia. Poi la vita prese altre direzioni, e Librizzi rimase alle spalle, chiusa nel cassetto delle stagioni passate.
Quando, dopo diciassette anni, mi ritrovai di nuovo su quel lembo di mondo — era la primavera del 2023 — trovai il paese più silenzioso, come se anche lui avesse imparato a custodire le sue assenze; eppure bastò scorgere i muri esterni scrostati dal tempo e dalle piogge, i segni di una vecchia ristrutturazione e una porta chiusa, perché tutto riaffiorasse, come evocato da un richiamo lontano. Mi parve quasi di rivedere me stesso, ragazzo, seduto a un tavolino, in attesa degli amici. Fu allora che compresi che certi luoghi non si perdono mai davvero: restano vivi sotto la cenere delle cose, intatti, come dimore interiori dove ogni sguardo, ogni risata, ogni silenzio continua a respirare.
Quando, dopo diciassette anni, mi ritrovai di nuovo su quel lembo di mondo — era la primavera del 2023 — trovai il paese più silenzioso, come se anche lui avesse imparato a custodire le sue assenze; eppure bastò scorgere i muri esterni scrostati dal tempo e dalle piogge, i segni di una vecchia ristrutturazione e una porta chiusa, perché tutto riaffiorasse, come evocato da un richiamo lontano. Mi parve quasi di rivedere me stesso, ragazzo, seduto a un tavolino, in attesa degli amici. Fu allora che compresi che certi luoghi non si perdono mai davvero: restano vivi sotto la cenere delle cose, intatti, come dimore interiori dove ogni sguardo, ogni risata, ogni silenzio continua a respirare.
A Librizzi, tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei settanta, c’erano due bar. Uno, il “bar di sopra”, si affacciava sulla piazza centrale; l’altro, più raccolto e familiare, stava all’inizio del paese, lungo la strada provinciale che tutti chiamavano “u straduni”. Era il “bar di sotto”, che in realtà si chiamava ”Bar La Lucciola”, gestito da Peppino Bonannella, un uomo garbato e di grande maestria nel preparare granite, gelati e dolci, aiutato dalla moglie Fina e dalle due figlie, Nina e Annamaria — due belle ragazze di pochi anni più grandi di me, sempre sorridenti dietro il bancone in legno foderato di formica.
Rispetto a quello della piazza, frequentato prevalentemente da uomini — pensionati, giocatori di carte e appassionati di politica — il “bar di sotto” aveva un’anima più casalinga. Non era solo un locale, ma un piccolo salotto, dove ognuno trovava posto, parola e ascolto. Le sedie di plastica intrecciata si mescolavano a quelle impagliate, diverse tra loro ma unite dallo stesso vissuto; le bottiglie disposte in fila sulle mensole e i biscotti in bell’ordine sui vassoi creavano un’armonia particolare, quasi intima, fatta di suoni e ritmi consueti. Si parlava di tutto: del tempo, dei figli, dei lavori nei campi, ma anche delle notizie che arrivavano “da Milano” o “dalla Germania”, dove molti erano emigrati. C’era sempre qualcuno pronto a offrire un bicchierino di Cynar o un Biancosarti, e le parole scorrevano lievi, tra battute, risate e vecchie storie che sembravano non finire mai.
Al mattino d’estate, nel bar si rinnovava il piccolo rito della colazione, come una cerimonia discreta ma necessaria, fatta di gesti lenti e voci pacate. L’aria, ancora fresca e punteggiata di luce, entrava dalle ante aperte, portando con sé l’odore della campagna, un soffio umido di terra e di erbe, con il cinguettio degli uccelli a fare da sottofondo. Dentro, la penombra attenuava il calore del giorno nascente: la luce filtrava obliqua sul bancone, disegnando riflessi sulle bottiglie e sulle caraffe di vetro.
Don Peppino, con il grembiule annodato in vita, salutava ogni cliente come un vecchio amico, invitandolo a sedersi con un cenno gentile o una battuta sommessa; Fina, indaffarata dietro la macchina del caffè, muoveva le mani con un’abilità silenziosa, mentre le figlie, Nina e Annamaria, sistemavano i vassoi dei biscotti con un’attenzione che sapeva di cura domestica più che di mestiere.
Don Peppino, con il grembiule annodato in vita, salutava ogni cliente come un vecchio amico, invitandolo a sedersi con un cenno gentile o una battuta sommessa; Fina, indaffarata dietro la macchina del caffè, muoveva le mani con un’abilità silenziosa, mentre le figlie, Nina e Annamaria, sistemavano i vassoi dei biscotti con un’attenzione che sapeva di cura domestica più che di mestiere.
Sedersi a un tavolino, tra il profumo dolce del latte e quello più deciso del caffè appena macinato, aveva qualcosa di familiare e rassicurante, come l’abbrivo quieto di una giornata che prometteva solo cose buone. Poi arrivava la granita di caffè con panna — un bicchiere freddo, decorato dalle minuscole goccioline della condensa che luccicavano come un perlage di spumante, la panna montata a mano, l’aroma intenso e lievemente amaro che si fondeva nello zucchero — e bastava quel primo assaggio, quel primo cucchiaino, per sentire che l’estate era davvero cominciata. Fuori, il paese si svegliava piano; dentro, il tempo pareva indugiare un poco, trattenuto da quella dolcezza che profumava di abitudine e serenità.
Quando il sole cominciava a calare dietro i monti e l’aria si faceva più fresca, quel piccolo bar si trasformava nel punto di partenza delle passeggiate pre-serali. Era l’altro rituale dell’estate: prima di avviarsi lungo lo stradone, uomini e donne, ragazzi e bambini si davano appuntamento lì, davanti al bancone di Don Peppino, per scegliere un gelato — nocciola, limone, fragola o caffè — e uscire poi con quel piccolo tesoro fresco tra le dita, come un pegno d’estate da portare lungo il cammino, pronti a scambiare due parole con amici e conoscenti.
Fu proprio lui, con la sua fantasia generosa e un tocco d’ingegno artigianale, a inventare il “cono da passeggio”: escludendo la cialda, la crema veniva immersa rapidamente nel cioccolato fuso e poi riposta nel freezer, fino a diventare una sorta di cornetto fatto in casa, ante litteram. Era un piacere semplice, da gustare piano, tra una parola e un sorriso. E mentre le prime luci dei lampioni accendevano riflessi dorati sulla strada, la gente camminava lenta, assaporando non solo la dolcezza tra le dita, ma anche la quiete di quelle sere senza fretta, quando tutto sembrava trattenere il respiro in un momento d’armonia perfetta.
Fu proprio lui, con la sua fantasia generosa e un tocco d’ingegno artigianale, a inventare il “cono da passeggio”: escludendo la cialda, la crema veniva immersa rapidamente nel cioccolato fuso e poi riposta nel freezer, fino a diventare una sorta di cornetto fatto in casa, ante litteram. Era un piacere semplice, da gustare piano, tra una parola e un sorriso. E mentre le prime luci dei lampioni accendevano riflessi dorati sulla strada, la gente camminava lenta, assaporando non solo la dolcezza tra le dita, ma anche la quiete di quelle sere senza fretta, quando tutto sembrava trattenere il respiro in un momento d’armonia perfetta.
Era un mondo che si muoveva piano, scandito dalla gestualità giornaliera: un bicchiere che si posava sul tavolino, il fruscio di un giornale sfogliato, un saluto che arrivava dalla porta. E in quell’andare lieve delle ore, tra il viavai discreto dei clienti e il vociare familiare che si alzava di tanto in tanto dal bancone, il bar si animava come un salotto di paese, diventando un piccolo universo. dove ognuno trovava il suo posto e il suo momento.
La TV era accesa quasi tutto il giorno, appoggiata su una mensola alta, e trasmetteva , il telegiornale, documentari e telefilm. . Quando, in occasione della Fiera Campionaria di Messina, ad agosto, la Rai trasmetteva solo per Messina e provincia una serie di film al mattino, alle dieci, era un appuntamento imperdibile: i ragazzini si sedevano davanti al televisore, incantati, rimandando ogni gioco a dopo. Il bar diventava così anche un piccolo cinema, dove il silenzio si alternava alle risate oppure ai commenti per qualche scena divertente. Nei pomeriggi delle grandi corse ciclistiche — il Giro d’Italia, il Tour de France — o delle gare di atletica, il salone si riempiva di voci e applausi: tutti con gli occhi puntati sullo schermo, pronti a vivere in diretta le imprese di Eddy Mercks e Felice Gimondi o i record di Pietro Mennea. C’era poi una stanzetta laterale, piccola e sempre piena, dove si giocava a briscola, scopa e soprattutto a tresette. I colpi secchi delle carte sul tavolino di legno si mescolavano al tintinnio dei cucchiaini nelle tazzine e al rumore della gelatiera professionale, mentre il barista immergeva una grande spatola di mantecazione per mescolare il gusto del momento.
Con il tempo, per attrarre i giovani, Don Peppino aveva installato un moderno jukebox in un piccolo terrazzamento costruito accanto al bar. Bastava una moneta, e subito la musica si diffondeva nell’aria come una carezza estiva: Celentano, Lucio Battisti, Morandi e Mina erano i più gettonati. Così, ascoltando la canzone preferita, ci si sedeva all’aperto, con una gazzosa o una “mezza” birra Messina chiacchierando del più e del meno: delle serate alla “Pineta”, la discoteca di San Giorgio, dei sogni di fuga verso le città del Nord, o magari semplicemente di ciò che si era mangiato a pranzo — con quella leggerezza che nasce quando il giorno si allunga e non c’è fretta di pensare a domani. E se per caso passava una ragazza che piaceva a qualcuno, si alzava subito un commento sottovoce: “Ah, talìa chidda, ogni jornu ca passa si fa sempri cchiù bedda!”. E via con le risate, la musica e le battute che si perdevano nel vento caldo della sera. Era un piccolo mondo, ma sembrava immenso.
D’inverno, così come cambiavano le temperature, mutavano anche le abitudini dei clienti. Nell’anno in cui la mia famiglia risiedeva a Librizzi, ogni mattina aspettavo la corriera per Patti — frequentavo allora il primo anno di liceo, e il capolinea era proprio davanti al bar. Fuori, il freddo pungeva e la foschia stazionava immobile sulla strada, come un velo sottile che il mattino non aveva ancora il coraggio di sollevare. Dentro, invece, il calore era quasi domestico: mi sedevo con Tano Gugliotta a un tavolino per una colazione diversa dalle granite estive. Consumavamo un bicchiere di caffèlatte servito con una o due “nuvolette”, biscotti friabili a base di uova, zucchero e farina, così leggeri che si scioglievano in bocca. Il loro profumo, una dolce mescolanza di vaniglia e forno, si spargeva nell’aria e si confondeva con quello del caffè appena fatto. Tutti salutavano per nome, e anche chi entrava solo per un caffè trovava sempre qualcuno con cui scambiare due parole. I vetri si appannavano, le voci restavano basse, come se il sonno indugiasse ancora nei pensieri, mentre dal bancone arrivava il sibilo della lancia a vapore che scaldava e montava il latte.
Anche nella stagione fredda, il bar rimaneva un punto di riferimento sportivo. All’interno c’era l’unica ricevitoria del Totocalcio del paese, e la domenica pomeriggio, con la trasmissione radiofonica “Tutto il calcio minuto per minuto”, l’atmosfera si faceva elettrica. Le voci di Enrico Ameri e Sandro Ciotti scandivano le emozioni di un’Italia che viveva di pallone: «Scusa Ameri, intervengo da Torino, gol della Juventus!». I tavolini erano quasi tutti occupati, e con la schedina del Totocalcio in mano ognuno seguiva con ansia i risultati, trattenendo il fiato a ogni aggiornamento, sperando di azzeccare il 12, o magari il sospirato 13. Bastava un gol per scatenare un coro di esclamazioni, un fremito collettivo che attraversava il locale come un’onda. Qualcuno batteva il pugno sul tavolo, altri ridevano o sospiravano, e tra un annuncio e l’altro si commentava a mezza voce, già pensando alle partite successive. Ricordo ancora Carmelino Segreto — tifosissimo del Milan — che, con il volto acceso dall’emozione, commentava a voce alta i risultati: “ U Milàn oggi joca bonu… ma videmu a Juventus chi fa!”. E intanto, dalla radio, le cronache continuavano a scorrere come un battito collettivo, riempiendo il bar di un’energia viva, fatta di attese, speranze e piccole illusioni domenicali: era come se, tra quelle pareti, l’Italia calcistica intera respirasse all’unisono
Il bar di sotto non era solo un esercizio commerciale, ma un microcosmo di vita paesana. Le chiacchiere scorrevano come il vermouth servito nei bicchierini, e tra una parola e l’altra si gustavano i morbidi e profumati biscotti all’anice o i duri “pipareddi” con le mandorle, che Don Peppino prelevava dai vassoi accanto ai grandi contenitori di vetro colmi di caramelle Rossana e mou Elah.
Con il suo sorriso appena accennato, serviva tutti con la calma di chi sapeva che la sua era più che una bottega: un piccolo presidio d’umanità, dove la quotidianità pareva concedersi una pausa, come se tutto, per un istante, si fermasse in ascolto.
Sua moglie Fina, instancabile, si muoveva tra banco e clienti con una grazia silenziosa, e le figlie, Nina e Annamaria, portavano un soffio di giovinezza in quel mondo che profumava di zucchero, di vaniglia e di anni sereni.
Il "bar di sotto" era un passaggio quotidiano dovuto, un punto d’incontro, una parte viva di Librizzi. Oggi quel luogo rimane come un’immagine al crepuscolo, dove il mormorio delle voci sembra fondersi con la luce che declina, e ogni cosa conserva un riflesso quieto di ciò che è stato. E, in fondo, pare quasi di udire ancora qualcuno che dice: “ Na picca di nocciola, Peppino, ca poi mi fazzu na passiata!”
Con il suo sorriso appena accennato, serviva tutti con la calma di chi sapeva che la sua era più che una bottega: un piccolo presidio d’umanità, dove la quotidianità pareva concedersi una pausa, come se tutto, per un istante, si fermasse in ascolto.
Sua moglie Fina, instancabile, si muoveva tra banco e clienti con una grazia silenziosa, e le figlie, Nina e Annamaria, portavano un soffio di giovinezza in quel mondo che profumava di zucchero, di vaniglia e di anni sereni.
Il "bar di sotto" era un passaggio quotidiano dovuto, un punto d’incontro, una parte viva di Librizzi. Oggi quel luogo rimane come un’immagine al crepuscolo, dove il mormorio delle voci sembra fondersi con la luce che declina, e ogni cosa conserva un riflesso quieto di ciò che è stato. E, in fondo, pare quasi di udire ancora qualcuno che dice: “ Na picca di nocciola, Peppino, ca poi mi fazzu na passiata!”
Giuseppe Arlotta
29 ottobre 2025

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