lunedì 1 settembre 2025

GIUSEPPE ARLOTTA: QUANDO SI PENSAVA CHE L'AMORE COSTASSE 500 LIRE (la prima volta di Mario )






      



QUANDO SI PENSAVA CHE L’AMORE COSTASSE 500 LIRE

 
                                                         (La prima volta di Mario)
 
Era la fine degli anni Sessanta. In un’Italia ancora stretta nei lacci di un moralismo discreto ma onnipresente, bastava sussurrare la parola “sesso” per far abbassare gli occhi o strappare una risata nervosa. Figuriamoci tra adolescenti in cerca di un'identità che ancora sfuggiva. appena usciti dall’infanzia, ancora impigliati tra i banchi della scuola media e le partite di pallone in piazza. Non c’erano manuali, nessun consultorio, e tantomeno internet. I primi approcci con la materia evidenziavano un misto di curiosità ed esitazione. I riferimenti erano frammentari, confusi: confidenze carpite ai più grandi, disegnini osè scambiati di nascosto, parole nuove legate alla sfera sessuale di cui si ignorava quasi tutto. L’imbarazzo si stemperava solo nella complicità del gruppo, quando ciascuno diceva la sua, mescolando verità e fantasia, nel tentativo di apparire più adulti.
 
Tra i compagni di classe c’era Carmelo, uno di quelli che si dicevano ‘cresciuti per strada’, costretto dalle bocciature a ripetere l’anno, quindi più grande, occhi vispi e lingua sciolta - smaliziato, diretto, aveva il carisma di chi sapeva di più o almeno lo dava a credere. Un giorno, nel cortile della scuola, tirò fuori una fotografia. Una donna nuda, a figura intera. Nulla di volgare, per i canoni di oggi, ma per gli altri alunni fu uno shock: peli sotto le ascelle, tra le gambe, seni grandi e scoperti. In un’epoca in cui la pornografia era una parola quasi sconosciuta, quella foto era una rivelazione. In quegli anni non andava di moda depilarsi, e quella crescita spontanea dei peli, aveva per dei ragazzini un fascino selvaggio, misterioso. La foto girò di mano in mano, tra mormorii e commenti soffocati.
 
Mario era arrivato in ritardo e notando un capannello di ragazzi della classe, si avvicinò con curiosità. Capito cosa stava accadendo e soprattutto scorgendo quell’immagine proibita, come spinto da una forza che non sapeva controllare, offrì cinquanta lire per comprarla. Carmelo accettò subito, già fantasticando su come avrebbe speso quei soldi “piovuti dal cielo”. Lui che di solito, quando si parlava di cose da grandi, veniva tenuto in disparte per quell’aria da ragazzino perbene e inesperto -fiero del suo acquisto – la mostrò agli altri come fosse un trofeo. Per tutta la durata delle lezioni non smise di sbirciarla sotto il banco. Ma l’entusiasmo durò poco: all’uscita da scuola si rese conto dell’errore commesso. Come sarebbe potuto tornare a casa con quell’oggetto? Se il padre l’avesse trovato... guai grossi
 
Mentre lentamente percorreva il tratto di strada che lo avrebbe ricondotto al suo palazzo, rifletteva su come avrebbe potuto nascondere la foto o addirittura distruggerla — perdendo così, per un impulso troppo istintivo, le cinquanta lire che aveva consegnato a quel filibustiere di Carmelo. Poi gli venne un’idea che forse avrebbe risolto il suo problema: andò da Mimmo, un ragazzo di diciassette anni che abitava al piano sotto il suo, e approfittando del fatto che la madre fosse indaffarata in cucina, gli mostrò l’immagine. Mimmo la prese, accennò un sorriso d’intesa e disse soltanto: ‘Aspetta un attimo.’ Si chiuse in bagno e vi rimase per una decina di minuti; quando riapparve, col volto ancora arrossato e l’aria un po’ stanca, propose di barattarla con una maglietta del Milan e un modellino in compensato di un battello a vapore. Mario accettò, sollevato e con il cuore più leggero. Nel tempo, la maglietta fu ceduta per un buon numero di fumetti (il suo idolo era Sivori, e i colori rossoneri lo interessavano poco), mentre il battello diventò protagonista di mille battaglie navali con i soldatini. I mesi scorrevano, un nuovo anno scolastico era cominciato e l’inverno ormai alle porte. Eppure quella foto — o meglio, il ricordo di essa — continuava a riaffiorare nelle conversazioni che aveva con gli amici. Qualcosa si era mosso, dentro di lui.
 
Da qualche anno aveva preso l’abitudine di avventurarsi con i compagni di giochi nei pressi di una segheria che sorgeva di fronte a una spiaggia libera, costantemente battuta dal vento. Frugavano tra gli scarti di lavorazione in cerca di pezzi di corteccia da intagliare e scavare, per trasformarli in barchette galleggianti. Era affascinato dai marosi che, d’inverno, si abbattevano sulla riva con un fragore cupo, simile al rombo che precede un temporale.
 
E tutte le volte che, sotto la spinta del vento che sferzava lo Stretto di Messina, le onde si alzavano così imponenti — come a farsi montagne liquide — fino a oltrepassare i confini della spiaggia e a lambire, come in un assedio inarrestabile, i muri della segheria, Mario rimaneva ammutolito, con gli occhi fissi verso il mare, perdendosi in uno spettacolo unico, antico, quasi mitologico: lo Ionio e il Tirreno si lanciavano l’uno contro l’altro come divinità rivali, ma nel loro scontro feroce finivano per fondersi in un unico respiro, come se l’intero Mediterraneo parlasse con voce sola, quella del moto instancabile delle acque, che si protendevano per poi arretrare, come a voler narrare segreti custoditi da millenni.
 
Spesso a strapparlo a quella sorta di trance ci pensavano gli amici, richiamandolo alla realtà con un invito pratico e pressante: bisognava raccogliere quanta più corteccia possibile. Mario allora si muoveva con un’energia insolita, quasi febbrile, come se in quei pezzi di legno già vedesse prendere forma decine di barchette pronte a salpare. Le immaginava disporsi in flotta, dietro la nave ammiraglia (ricavata da un pezzo di corteccia più grande), pronte ad una battaglia che nella sua mente si accendeva in un mare in tempesta, agitato e possente come quello che aveva appena contemplato.
 
Con il crescere, però, non c’era più spazio per queste emozioni “infantili” e, con le prime inquietudini dell’adolescenza che iniziavano a farsi sentire, quel tempo di onde, cortecce e barchette lasciava il posto a nuove esplorazioni, meno innocenti ma non meno cariche di mistero.
 
Ormai grandicello, e su suggerimento di qualche compagno, iniziò — sempre in gruppetti di tre o quattro — a frequentare, nella stessa zona, una stradina interna poco distante dalla spiaggia, che ospitava un mondo parallelo. Vi si allineavano baracche di legno lungo un percorso sterrato, come casematte di un fronte silenzioso: ognuna diversa, ciascuna con una sua anima. Alcune erano dipinte di un blu sbiadito, altre in legno grezzo, con le tavole inchiodate alla meglio, sbrecciate dagli anni e dalle intemperie. Lì, in quel tratto di periferia dimenticata tra il mare e il ferro arrugginito di alcuni scafi abbandonati, prendeva forma — giorno dopo giorno — il teatro sensuale dell’adolescenza locale: un postribolo a cielo aperto, dove la realtà cominciava a mescolarsi con l’immaginazione, e il desiderio iniziava a parlare una lingua nuova.
 
Davanti a quelle baracche sedevano donne di ogni età e forma, come regine di una corte instabile e itinerante, sovrane di un regno effimero eppure capace di esercitare un potere arcano. Erano loro, con i sorrisi ambigui, le pose ora studiate ora distratte, a dettare le regole di un gioco che Mario e i suoi amici non conoscevano ancora, ma che cominciavano a intuire con un misto di turbamento e meraviglia. Le chiamavano “signorine” — così si diceva, quasi con rispetto — ma sapevano benissimo che svolgevano un mestiere proibito, tanto affascinante quanto misterioso. In verità, bastava guardare, fantasticare, lasciarsi trasportare dall’immaginazione. Tornavano spesso, con la scusa di cercare pezzi di corteccia per costruire barchette — ma il vero legno che li attirava era quello delle baracche, ruvido, segnato dal tempo, eppure ricco di promesse. Le passeggiate divennero sempre più frequenti, quasi un rituale silenzioso.
 
Le signorine erano sempre lì: alcune ridevano tra loro con complicità consumata, altre fumavano in silenzio, altre ancora accavallavano le gambe con una lentezza teatrale, mostrando con naturalezza disinvolta ciò che era destinato a essere visto. Si offrivano così, agli sguardi curiosi e famelici dei passanti: clienti abituali, avventori indecisi, o semplici adolescenti che osservavano tutto con occhi sgranati e cuore in tumulto. A volte bastava uno sguardo per sentirsi improvvisamente scelti. Un cenno del capo, un sorriso accennato, una battuta in dialetto lanciata con finta indifferenza — “E chistu chi voli?” — ed ecco che il sangue accelerava, il fiato si mozzava, la lingua si inceppava. Era una forma di corteggiamento rovesciato, in cui non erano i ragazzi a inseguire, ma loro, le signorine, a concedersi il lusso di stuzzicarli. Non perché volessero davvero qualcosa — Mario lo intuiva già allora — ma forse perché vedevano in quei ragazzini goffi e impacciati il riflesso tenero di una mascolinità ancora acerba. Cuccioli che volevano farsi lupi, e che ancora non sapevano come.
 
Per giorni — o forse settimane — il gruppo passeggiando per la strada sterrata si limitò a osservare da lontano,. Le risate nervose coprivano l’imbarazzo, i commenti tra italiano e dialetto cercavano di mascherare la tensione. Nessuno lo diceva apertamente, ma tutti sapevano che quelle baracche non erano solo un luogo:  Erano una linea sottile tra l'infanzia e qualcosa di sconosciuto. E oltre quella linea, nulla sarebbe stato più come prima. Il tono tra loro era un misto di spavalderia e paura mal dissimulata. Ammiccavano, si punzecchiavano, si sfidavano a parole, ma nel fondo degli occhi si leggeva lo stesso turbamento:
 
—“Un figghiolu trasiu e quannu nisciu mancu si ricuddava comu si chiamava… fu chidda chi ci fici scuddari tuttu!”
— “ma vi rendete conto? Stiamo qui a guardarle e basta… prima o poi qualcuno ci deve entrare.”
— “E perché? Solo per dire c’u ficimu?
— “No, per sapere com’è. Per capire. Non vi scuddati chi puru chista è na scola”
 
— “Allura comu si fa? Si entra uno alla volta? A turno?”
— “Intanto si osserva. Poi, quando uno se la sente… ci prova.”
— “Facili a diri. Cu ci parra prima?”
— “Basta 'nu signali ca testa, ‘na strizzata d’occhiu…”  quelle capiscono tutto.”
 
Quelle conversazioni si ripetevano spesso, tra un sorriso forzato e un silenzio improvviso, carico di significati. Nessuno voleva essere il primo, ma ognuno sperava, in fondo, che toccasse a lui. E mentre il tempo scorreva lento in quel fazzoletto di periferia, fatto di sabbia, lamiera e promesse non dette, erano loro, le signorine, a dominare la scena. Bastava osservarle — e loro sapevano di essere osservate
 
L’abbigliamento era parte integrante del loro linguaggio. D’estate indossavano corpetti variopinti appena sbottonati o camicette trasparenti che lasciavano intravedere più di quanto coprissero, quasi simboli di un’offerta velata, mai esplicitata ma più eloquente di mille parole. Spesso vestite solo di sottane nere in finto raso, lasciavano scoperte le gambe fino a metà coscia. La pelle abbronzata riluceva sotto il sole, e i loro movimenti — anche quelli più banali, lisciarsi i capelli o sistemare le spalline abbassate sulle braccia — diventavano coreografie ipnotiche agli occhi ingenui di chi non aveva ancora compiuto quattordici anni. E sempre nel periodo estivo indossavano sandali che lasciavano vedere piedi curati e unghie smaltate di rosso. Il rosso tornava spesso, sulle labbra, sulle dita, a volte anche nei piccoli foulard che si legavano attorno al collo come un vezzo da diva d’altri tempi. Alcune portavano collanine di finto oro, orecchini e braccialetti di vario tipo. Tutto contribuiva a quella loro aura da attrici di un film vietato ai minori.
 
In inverno, il freddo non cancellava la messa in scena: vestivano  maglioncini di lana a righe o a tinta unita, che aderivano come seconda pelle. Qualcuna, malgrado il freddo e sfidando le folate di vento, si copriva con scialli multicolori lavorati a maglia — le classiche mantelle di una volta — che non coprivano molto, ma lasciavano filtrare, per quelle che l’avevano, l’opulenza dei seni che restavano sempre generosamente scoperti, attirando il calore e gli sguardi di eventuali clienti. Erano donne forti, teatranti e nutrici primordiali, muse e lupe travestite da pecore. Sapevano di avere potere, e lo esercitavano con grazia cruda. A guardarlo oggi, quell’abbigliamento poteva sembrare improvvisato, magari persino kitsch. Ma allora, era parte dello spettacolo per gli adolescenti che ancora si stupivano del profilo di una coscia o di una maglietta attillata: tutto era magnetico. Ogni dettaglio parlava di un mondo lontano, adulto, misterioso. Così, dopo innumerevoli passeggiate in quella strada, quelle donne erano diventate figure mitiche, ninfe urbane, sacerdotesse pagane di una religione non scritta, che il gruppo aveva già iniziato a praticare — se non con il corpo, con lo sguardo
 
Man mano che  passavano i giorni, ognuno dei ragazzi aveva maturato le proprie preferenze, idealizzando con quale delle ”signorine” avrebbe voluto accompagnarsi. Mario guardava sempre la stessa: una donna che sembrava aver superato i trent’anni ma non ancora vicina ai quaranta, con i capelli castani scuri, lunghi e sciolti sulle spalle, occhi intensi e quel sorriso appena accennato che lo faceva sentire unico, anche se sapeva di non esserlo. Arrivati a quel punto, le passeggiate non servivano più solo a coltivare sogni proibiti, ma diventavano esplorazioni necessarie, alla ricerca di informazioni sul prezzo da pagare per quelle esperienze tanto desiderate. Così, approfittando della loquacità compiaciuta e del bisogno di vanagloria di qualche adulto appena uscito da uno degli antri del piacere — a Messina li chiamano ”buddaci” — riuscirono a ottenere le risposte che cercavano. Oltre a dettagli non richiesti sulla prestazione, che però tutti ascoltavano con attenzione mista a stupore, venne fuori finalmente anche la tariffa: cinquecento lire . Una cifra enorme per dei ragazzi. Il denaro, per la prima volta, non era più solo qualcosa da scambiare con fumetti o caramelle. Era diventato un passaggio, una chiave d’accesso a un mondo proibito. E quel mondo iniziava ad esercitare un richiamo irresistibile: c’era chi si sentiva pronto a varcarne l’ingresso, e chi invece lo sfiorava con timore.
 
— “cinquecento lire... capite? cinque pezzi da cento! Non è uno scherzo.”— “Ci vogliono settimane per metterle da parte. Io, con i soldi per il panino che mi dà mia madre, ci campo tre giorni…” — “Io ho venduto delle figurine doppie.” — “Possiamo raccogliere il ferro vecchio. Lo pagano dieci lire al chilo...” — “Insomma, ognuno si deve ingegnare. Ma quando ce l’hai in tasca, le cinquecento lire, senti che pesano… non solo per il valore, ma per quello che potrebbero farti vivere.”
 
Con il tempo, quelle visite assunsero il significato di veri e propri riti d’iniziazione. Si arrivava in gruppo, tra risatine sommesse e sguardi complici, ma presto l’attenzione si spostava su chi, tradito dall’emozione, rallentava il passo e si attardava davanti a una baracca, combattuto tra attrazione e timore. Poi, uno dopo l’altro, anche i più insicuri — appena messi insieme i soldi necessari — finivano per varcare quel confine, cercando di mascherare l’impaccio con un atteggiamento da adulti consumati, mentre si avvicinavano, con malcelata trepidazione, alla donna che avevano scelto.
Mario, che proprio non era in grado di rinunciare al cinema, alle figurine e a tutto ciò a cui mamma e papà lo avevano abituato, si rese conto un giorno di essere rimasto l’ultimo a non aver fatto il “grande passo”. Aveva ascoltato le narrazioni degli amici, via via sempre più colorite - una sintesi, tra l’erotico e il super eroico – storie in cui loro diventavano specie di “Nembo Kid” del sesso. E – pur senza invidia - cominciava a sentirsi diverso. Quelle storie, per quanto esagerate, non erano più soltanto parole: avevano cominciato a scavare in lui domande, curiosità, inquietudine.
 
Soprattutto, c’erano le battute, gli sguardi ammiccanti, le allusioni che ogni giorno si facevano più pressanti. Per sottrarsi a quella gogna bonaria, Mario iniziò a prendere in considerazione l’idea di mettere da parte i soldi necessari. E così, nel giro di una quindicina di giorni – a dirla tutta, senza dover compiere grandi sacrifici – cinque monete da cento lire si adagiarono nelle sue tasche come un piccolo tesoro sonoro, rotolandovi dentro con un tintinnio che sembrava volerlo interrogare a ogni passo. Le stringeva come fossero pietre calde. Le dita correvano a cercarle di continuo, come per assicurarsi che fossero ancora lì. Quel suono – quel leggero urto tra i metalli – era diventato un richiamo. Adesso mancava solo una cosa, la più difficile: il coraggio.
 
Camminava avanti e indietro aspettando che arrivassero gli amici, ma nella mente era solo.
“E ora che le ho i soldi per pagare… che faccio? Ci riuscirò davvero?” - Il cuore batteva come se qualcuno bussasse dal di dentro, insistentemente.
“E se poi mi blocco? Se si mette a ridere? Se capisce che non so nemmeno da dove cominciare?”
- Si sentiva diviso: una parte di lui voleva tornare a casa, infilarsi sotto le coperte e far finta di nulla. Ma un’altra – più testarda, più nuova – lo spingeva avanti.
“Forse non sono pronto. O forse nessuno lo è, davvero. Ma gli altri… loro ce l’hanno fatta. E io? Io devo provarci. Non per farne vanterie. Ma perché sento che è arrivato il momento.”
 
Gli veniva da tremare, ma non era freddo. Era qualcosa di più profondo, un fremito che partiva dalla pancia e si allargava ovunque, come se il corpo stesso sapesse che stava per accadere qualcosa che non si dimentica.
“Se torno indietro adesso, resterò sempre il solito Mario. Se entro… qualcosa cambierà. Non so bene cosa. Ma lo sentirò.”
 
Così, quel pomeriggio, mentre il sole calava, gli amici lo accompagnarono davanti alla baracca della prescelta - Lei era lì, seduta come sempre, le gambe incrociate e la sigaretta tra le dita con accanto un bracierino acceso che sprigionava scintille e tenue calore. Portava un maglioncino stretto, color beige, che ne risaltava le forme - quando lo vide fermarsi, piegò il capo e gli sorrise. Non c’era ironia, non c’era sfida. Solo un accenno di complicità, come se si fossero capiti da sempre. “ Che fai, entri?” -  Mario non rispose, o forse disse solo “Sì...” - Nel momento stesso in cui entrò nella baracca, con la tenda rossa che ricadeva alle sue spalle come un sipario da cui la luce filtrava appena, ebbe la strana impressione che il mondo esterno si fosse dissolto. Il silenzio si fosse fatto più denso. Guardava tutto con occhi troppo aperti: il letto, il vestito appeso a un gancio, la borsetta poggiata sul tavolino, non c’era più la segheria, né suoi amici, né le voci che si rincorrevano fuori. Solo lei insieme a lui. In quella penombra odorosa di cipria e fumo. Di pelle.
 
Mentre pagava in anticipo - proprio come al cinema, quando entrava senza sapere se il film lo avrebbe conquistato o deluso - gli tremavano le mani. Lei accorgendosene, gli chiese con dolcezza se fosse la prima volta – e non attendendo risposta, come se gli avesse letto nel pensiero, iniziò a muoversi sicura, con gesti semplici. Il resto fu una nebulosa di sensazioni. Sussurri, mani che guidavano, abiti che scivolavano, tremiti, sorrisi appena accennati. “Poi tuccari, ma a maglia non ma levu picchì sentu friddu...” - Era tutto come nei suoi sogni, eppure molto diverso. La realtà aveva odori, rumori, respiri che nessuna fantasia poteva prevedere. Quando lei si spogliò nelle parti basse, vide quella che Jorge Amado avrebbe definito nel suo libro “Santa Barbara dei fulmini” - “ la folta peluria che circondava la bocca della misericordia” - e capì, senza capirlo, tutto quello che da tempo  aveva cercato. Ciò che accadde dopo — o che immaginò potesse accadere — fu come un sogno lucido. Non poteva  dire con certezza dove finisse la realtà e dove iniziasse l’immaginazione. In quei minuti sospesi sentiva la sua mente allontanarsi dal corpo, come se si fosse sdoppiato: era lì, ma al tempo stesso si osservava da fuori, spettatore di se stesso. Testimone silenzioso della propria fragilità: un ragazzino impacciato, muto, che cercava di comprendere cosa fosse quella cosa chiamata desiderio. E lei — che aveva visto tanti giovani di quell’età — parlando a voce bassa, con frasi brevi, essenziali, diceva: “non ti scantari” oppure “ ci pensu iò ”. Non rideva, non giudicava. Solo assecondava, lo accompagnava senza invadere, sdrammatizzava con un tono pacato e saggio.
 
Mario ascoltava più col cuore che con le orecchie. Aveva paura, sì. Ma anche una curiosità che superava ogni esitazione. Continuava a domandarsi se sarebbe stato all’altezza, se il suo corpo avrebbe risposto come nei racconti che giravano a scuola, ma soprattutto si chiedeva se, dopo, sarebbe stato diverso. Più uomo. Meno bambino. Forse accadde davvero, forse no. Ma quello che sentì — o credette di sentire — fu un lungo momento senza tempo, fatto di calore, di pelle, di parole sussurrate e di un pudore nuovo, diverso da quello infantile. Un pudore che non era più paura, ma rispetto.
Un rispetto istintivo per quella donna che, senza ostentare nulla, gli stava donando qualcosa che non avrebbe più dimenticato. Il tempo dentro la baracca era elastico. Sembravano passati dieci minuti. O forse uno solo. O un’ora intera. E poi il buio. E poi la luce, e nuovamente la luce, ed infine quella frase che, ancora oggi, riecheggia nei suoi ricordi con la sua crudezza dolce: sentì la sua voce dire —“chi fai, finisti? -  Cca’ fora ci sunnu l’autri chi stannu spittannu….”’ — e gli parve quasi che volesse svegliarlo da un sogno. Non c’era durezza nel tono, piuttosto una lieve nostalgia, come se anche per lei quel momento fosse stato, in qualche modo, diverso dal solito.
 
Uscendo dalla baracca, lei gli lanciò uno sguardo compiaciuto. Non quello che si riserva a un passante qualunque. Era lo sguardo complice di chi aveva condiviso qualcosa. Mario rispose con un gesto lieve della mano - sentì il tepore dell’ultimo sole sul viso. Come una benedizione. Camminava con le gambe leggere, ma con la testa piena. Non era né felice né confuso. Solo colmo. Di pensieri. Di possibilità. Di ricordi che già sapeva si sarebbero sedimentati, come la sabbia portata dal mare.
Quello che aveva vissuto, non si poteva raccontare, neanche agli amici. Così quando gli fecero le solite domande, le stesse che lui aveva fatto agli altri: “Ti piaciu?” “Chi ti fici?” “E idda chi ti dissi? rispose con un’alzata di spalle e abbassò lo sguardo, sorridendo appena, come fanno quelli che sanno e non vogliono dire. Dentro, però, ripensava a tutto. A come aveva risparmiato ogni lira. A come aveva fantasticato cento volte quell’incontro. E a come, in fondo, non era stato come l’aveva immaginato e neanche del tutto diverso. C’era stato un inizio, questo sì. Un varco era stato aperto. Non sapeva bene quale. Non sapeva nemmeno se l’avesse cercato davvero. Ma ora, dall’altra parte, si sentiva strano. Non cresciuto. Non ancora uomo. Ma meno solo, meno cieco. E - per la prima volta -, non si sentì più del tutto un bambino. Le parole non servivano. Dentro di lui qualcosa era cambiato. Forse era solo un’impressione, forse un’illusione. Ma in quell’illusione aveva scorto l’inizio di un addio alla fanciullezza. Un’eco che, ancora oggi, riaffiora tra i ricordi. Aveva toccato, anche solo per un istante, quel mondo misterioso che fino a quel giorno non aveva mai conosciuto. E forse è così che si diventa grandi: non per ciò che si fa, ma per ciò che si capisce — o si finge di capire — nel silenzio che segue. Nel battito che rimane nel petto, quando tutto è già finito.
 
Mario camminava lentamente, un po’ indietro rispetto agli altri con le mani in tasca, lo sguardo perso tra i ciottoli della strada e l’odore di salsedine che arrivava dal mare, prima riflettendo, – “Non è stato come nei racconti e neanche come nei miei sogni.” – Poi, dopo aver guardato il cielo che iniziava a tingersi di arancio, continuando a chiedersi: – “E adesso cosa sono? Un uomo? Un ragazzo diverso? O solo lo stesso Mario di prima, ma con un ricordo in più?” - Non aveva una risposta, e forse non serviva: “Tanto ormai… è fatta”. E lei, quella donna, non era stata solo un corpo, ma una presenza gentile, capace di ascoltare anche il suo silenzio. E poi… non c’è modo per dire cosa era accaduto. O se era accaduto davvero. Era stato un sogno, un inizio, oppure soltanto un passaggio? Qualunque cosa fosse stata,  Era avvenuta dentro di lui.
 
Ci pensa, oggi, a distanza di decenni. Non con nostalgia — quella l’ha lasciata ai racconti malinconici di altri — ma con un pudore che ancora lo accompagna, discreto, come un vecchio compagno silenzioso. Ancora adesso non saprebbe dire quanto durò quel momento. Forse pochi minuti. Forse un’eternità. Ma in fondo, non è il tempo a contare. È il segno che ha lasciato. Come se qualcosa si fosse rotto. O forse aperto. O entrambe le cose insieme. In quella baracca, tra odori forti, ombre ferme e la voce bassa di una donna senza nome, aveva sentito — per la prima volta — il peso e la grazia dell’essere maschio. E con essa, la fragilità che vi si accompagna. Non divenne uomo, quel giorno. Ma smise di essere soltanto un bambino. Da allora, la vita gli avrebbe portato altri amori, altri corpi, altri addii. Eppure, in ognuno di essi avrebbe percepito, in fondo, il riverbero lontano di quel pomeriggio salmastro, di quella domanda sussurrata — “È la prima volta che lo fai?” — e di quel gesto leggero, quasi pedagogico, con cui una donna gli fece intuire che l’ingresso nel mondo adulto non è mai un salto. È un sussurro. E quel sussurro, lui lo porta ancora dentro.
 
Giuseppe Arlotta
 
28 agosto 2025

2 commenti:

  1. Un racconto molto lungo, ma alla fine è valsa la pena leggerlo. Ho apprezzato molto la ricchezza delle riflessioni e la cura dei dettagli, anche se, qualche parola in dialetto mi è risultata intraducibile. Un testo di alta qualità. Bravo Arlotta, non annoi mai.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie per il commento, sicuramente il racconto e' lungo per una lettura sul web, piu' adatta la vecchia e cara carta, ma chi legge scopre un racconto ben scritto, avvincente e di qualità. Grazie a coloro che hanno letto e sono giorno dopo giorno di piu', grazie all'autore che con i suoi racconti nobilita il blog

      Elimina