Cari Lettori e' con infinito piacere che Vi invito a leggere questo racconto breve di Giuseppe Arlotta che vi proietterà in una estate siciliana dei primi anni 60, in un paese tra i Nebrodi , in cima ad una collina: Librizzi, località molto cara allo scrittore.
In questo Fine settimana a Librizzi c'è il calore dell'isola, le tradizioni di un paese, la natura lussureggiante di una Sicilia forse meno conosciuta che quella celebrata della costa o delle città, ma non meno affascinante e splendente.
UN FINE SETTIMANA A LIBRIZZI
(l’isola che eravamo)
Erano gli anni delle elementari, all'Istituto Sant'Ignazio di Messina, una scuola gesuita che, per quei tempi, si poteva dire avveniristica: in quinta già si studiava l'inglese — good morning, pencil, door, dog — parole che mi suonavano strane come un gioco nuovo, vocaboli lontani che si mescolavano al profumo di gesso e del legno vecchio dei banchi.
Eppure, più che le stesse parole, ciò che mi restava impresso erano le bacchettate sulle mani, inflitte con metodica fermezza, gentili come grandinate, da certi “amorosi” preti insegnanti. Bastava dimenticare di pronunciare un “Cristo Regni” o un “Sia lodato Gesù Cristo” all’ingresso in aula, per meritarsi quel gesto rituale che sembrava più penitenza che correzione.
Eppure, più che le stesse parole, ciò che mi restava impresso erano le bacchettate sulle mani, inflitte con metodica fermezza, gentili come grandinate, da certi “amorosi” preti insegnanti. Bastava dimenticare di pronunciare un “Cristo Regni” o un “Sia lodato Gesù Cristo” all’ingresso in aula, per meritarsi quel gesto rituale che sembrava più penitenza che correzione.
Era la Sicilia degli anni Sessanta, e certe consuetudini scolastiche erano ancora fortemente intrise di devozione e disciplina. Erano tempi segnati da una religiosità rigida, modellata nei movimenti e nelle formule, ma anche da un'infanzia che, nonostante tutto, sapeva scoprire spazi di libertà. Ricordo che contavo i giorni che mancavano alla fine di quell’anno terribile. E il sollievo, alla fine, arrivò: dopo cinque anni tra Ancelle Riparatrici e Gesuiti, finalmente in casa si iniziava a parlare dell’iscrizione ad una scuola pubblica per le medie — una prospettiva che, allora, appariva quasi rivoluzionaria. Era come intravedere un varco, uno spiraglio di libertà.
Fu in quella estate del 1964 che mio zio Ele — Michele, per l’anagrafe — mi regalò una splendida edizione illustrata di “ Le avventure di Tom Sawyer” scritte da Mark Twain. Lo zio Ele era il sapiente della famiglia, professore e preside di liceo classico, raffinato studioso e traduttore di greco antico e anche in quel regalo sembrava aver intuito qualcosa di me. Quella copertina colorata fu come una finestra aperta su un mondo nuovo, su un’America lontana ma sorprendentemente vicina al mio cuore di ragazzino siciliano. Ancora oggi conservo quel libro come una reliquia: con devozione, con gratitudine, con un pizzico di stupore per quanto possa un libro fare in un’anima giovane, sicuramente ingiallito dal tempo ma intatto nella sua magia.
Quel volume segnava il mio passaggio dalle filastrocche scolastiche e da quel fastidioso Pinocchio (che non mi ha mai coinvolto) verso una lettura piena, autentica, che accendeva in me il desiderio di vivere altre vite, altrove. Il primo libro “vero” . Il primo che non avevo dovuto leggere, ma che avevo scoperto grazie allo zio e scelto di amare. Mi sembrava che ogni pagina parlasse a me, che ogni parola fosse stata scritta per il bambino che ero. E da quel momento la lettura non fu più un esercizio scolastico, ma un atto d’amore. L’approccio fu quasi mistico. Ricordo ancora il profumo della carta, diverso da quello patinato e asettico dei libri moderni: era un odore antico, che sapeva di legno e colla, di inchiostro e avventura e ricordo anche, l’emozione con cui, ad alta voce, leggevo i passaggi che mi rapivano di più, tanto che mia madre dalla cucina, veniva a sbirciare chiedendomi in siciliano con chi stessi parlando (chi fai, parri sulu?) Forse temeva, in cuor suo, che qualche spirito mi avesse preso in possesso.— era donna umile e religiosissima — e così, per sicurezza, via con Ave Maria e Pater Noster, ché non si sa mai… Ma non erano spiriti. Ero diventato Tom Sawyer. Ero io che stavo imparando a vivere. iniziavo a vedere il mondo con occhi diversi.
Ogni fine settimana, quando papà ci conduceva a Librizzi, suo paese natale, si partiva all’alba, nel silenzio ancora sospeso delle prime luci. Dopo circa un’ora di viaggio, superato il “Bivio Colla”, cominciava il tratto che più attendevo: gli ultimi chilometri, percorsi in un misto di impazienza e incanto. Con il fiato sospeso, aspettavo la curva della “Castagnazza”, da cui, come una visione affiorante dalla memoria o da un sogno, appariva il paese: le case arroccate, incastonate sotto la chiesa madre —“A Matrici” , come la chiamavano i paesani — simili a un presepe eterno, quasi a incarnare quella peculiare armonia paesaggistica siciliana e a ribadire il senso profondo, come scolpito nella roccia, della religiosità del popolo librizzese. In quell’attimo, il reale si trasfigurava. Ai miei occhi di bambino, Librizzi diventava, St. Petersburg. Le colline attorno si dissolvevano nel profilo vasto del Missouri, e il Timeto — appena visibile in lontananza — assumeva la solennità immobile del grande Mississippi. Gli amici del paese, incontrati al mattino in piazza Catena, si mutavano nei compagni d’avventura complici perfetti delle mie fantasie: Achille diventava all’istante John Harper, Pippo prendeva i tratti di Huckleberry Finn (Huck). Con loro accanto, ogni angolo del paese si faceva frontiera, ogni viottolo una promessa d’esplorazione. Qualunque pretesto bastava per mettersi in marcia, alla scoperta di luoghi nascosti e misteri da svelare. Perché bastava poco, a quell’età, per abitare l’altrove.
C’era un sentiero, in particolare, che partiva poco fuori dal paese e conduceva alla pineta. Lo imboccavamo in silenzio, come si entra in un luogo sacro, accompagnati soltanto dal frinire assordante delle cicale e dal profumo selvatico dell’origano e del rosmarino, che si sollevava dalle pietre arroventate dal sole. Quelli erano luoghi generosi, fatti di terra chiara e cielo infinito. La luce, nelle ore della tarda mattinata, si faceva dorata e densa, come miele colato sulle cose, e il vento caldo che scendeva da monte pareva accarezzare i sogni, sospingerli più in là, verso confini ignoti. Ogni angolo si trasformava nel teatro cangiante di una nuova avventura.
La struttura rocciosa, addossata alla stradina interna che dalla piazza saliva al quartiere Forgia Superiore — oggi scomparsa, cancellata dall’intonaco grigio dell’ufficio di collocamento — era allora una montagna da scalare, un’erta vertiginosa da conquistare con mani e ginocchia sbucciate. Un casolare abbandonato diventava la tana segreta di pirati crudeli e tesori nascosti. La pineta era la nostra isola, remota e selvaggia, e persino il cimitero del paese, con le sue croci antiche (alcune inclinate) e i cipressi immobili, si tramutava in un luogo di sfide e brividi, dove ci addentravamo con il cuore in gola, immaginando d’incrociare Joe l’Indiano — che nei nostri racconti prendeva forma dalle dicerie del paese, incarnato nel volto cupo e nei silenzi minacciosi di un uomo che abitava nella zona di Porta Patti, noto per le sue collere improvvise e per i maltrattamenti inflitti a moglie e figli.
Nelle ore in cui né Achille né Pippo erano presenti, abbandonavo le vesti di Tom e, insieme ad altri ragazzini, nelle prime ore del pomeriggio — incurante del caldo che sembrava sciogliere le pietre — mi lasciavo prendere da un fervore sportivo che aveva qualcosa di epico. Il Messina partecipava al campionato di Serie A, tanto per capirci: avevo visto con i miei occhi “danzare” sul campo uomini come Sivori, Rivera, Mazzola — nomi che si pronunciavano con IL rispetto dovuto per chi ha fatto qualcosa di irripetibile. Così, armati di entusiasmo e di un solo, preziosissimo pallone, ci dirigevamo verso lo stradone sterrato che, molto oltre Contrada Giannotto, portava a un luogo mitico chiamato “i du muntagni” (le due montagne), che altro non erano che due costoni di terra e cespugli tra i quali la strada si apriva, come una cicatrice nel paesaggio. Per noi, quei rilievi avevano una sola, fondamentale funzione: impedire che la palla si perdesse nei noccioleti, assorbita da quel verde fitto e misterioso dove finiva ogni cosa calciata con troppa foga. Notoriamente “scarso”, trovavo posto in porta, ruolo ingrato e glorioso insieme, dove il corpo era tutto: ostacolo, bersaglio, pretesto. Il nostro allenatore — o, meglio, la nostra guida sul campo era Meluccio Rifici, poco più grande di noi. Non parlava molto, ma sapeva sempre cosa fare. C’era in lui una calma naturale, che a quell’età non si incontrava spesso.
E oggi, per la sua passione per la ricerca e per le tradizioni locali, è riconosciuto dai più come la memoria storica del paese. A fine partita, dopo essermi ripulito e con le escoriazioni su ginocchia e braccia pazientemente curate da mia madre, ci si ritrovava al “bar di sotto” di Peppino Bonannella. Lì, Meluccio, deposti i panni dell’allenatore, diventava il consigliere attento, l’amico grande che sapeva usare le parole giuste. Seduto accanto a me, con il tono calmo di chi conosce la vita, mi offriva una gassosa e, mentre le bollicine salivano leggere come sogni non ancora infranti, mi spiegava che anche se avevamo perso, era comunque una vittoria. Perché, mi diceva con voce convinta, “è dalle sconfitte che si traggono i migliori insegnamenti”. E in quel momento, in quella piccola/grande frase, c’era già tutta la lezione dell’età adulta che ancora non conoscevo.
A ricondurmi nei panni di Tom, quando Achille tardava ad arrivare, ci pensava Pippo — il nostro Huck — che con la sua solita determinazione da comandante esperto proponeva un diversivo semplice e irresistibile: “Andiamo da Italia e Natalino a prendere un panino (la mafalda) con la mortadella.” Quell’invito alla merenda aveva in sé qualcosa di solenne e rituale, come un richiamo all’ordine d’un’avventura che stava per iniziare. Lo diceva con l’aria di chi sa dove si va, e perché. ed io, obbediente e affamato, seguivo la sua proposta come si segue un destino. Pippo era il più sveglio, quello che non si perdeva mai d’animo e trovava sempre un’alternativa, una via laterale, una scorciatoia. Aveva in sé un senso dell’opportunità che rasentava l’intuito, e lo metteva in gioco con naturalezza, quasi senza accorgersene. In lui c’era una prontezza che non sconfinava mai nella fretta. Smaliziato e concreto, faceva da contrappunto alla riflessività di Achille, quella capacità tutta interiore di pensare prima di agire, di ascoltare il silenzio prima di dire (qualità che noi attribuivamo con ammirazione all’influenza del padre, il Maestro Marco), e nello stesso tempo bilanciava la mia fantasia traboccante, ereditata, forse, dall’essere cresciuto in città, in quella Messina, città di asfalto e di rumori, da cui portavo un bagaglio di sogni compressi e immaginazioni trattenute: in città non c’era spazio per l’avventura, per il selvaggio, per lo sconfinato.
Così, quando il trio si ricomponeva, le idee di Pippo venivano accolte con entusiasmo, quasi con riconoscenza. Una in particolare, ricorrente come una canzone dell’estate, aveva il sapore dell’impresa: “E se dopo il panino andassimo alla Croce, a cercare qualcosa di dolce?” La Croce non era una croce vera, ma un incrocio polveroso di viottoli che tagliava la campagna a nord del paese, un punto senza tempo dove i rumori si rarefacevano e l’aria sapeva di sole e polline. Lì, proprio ai bordi del tracciato, in una curva appena accennata, cresceva un piccolo vigneto di uva bianca. La vite saliva a onde lungo i pali di legno, e i grappoli pendevano come promesse. Il vigneto ci appariva come un luogo sospeso — un” hortus conclusus” della nostra infanzia — che conservava misteri e doni. Pippo, naturalmente, ne era il custode. Aveva esplorato ogni filare, assaggiato acino dopo acino con la concentrazione di un sommelier bambino, e individuato — tra gli altri — i filari con grappoli di zibibbo dolcissimo e raro, sapientemente nascosti più all’interno, dove l’occhio del passante non poteva arrivare. “Quelli buoni non stanno mai a portata di mano,” diceva serio, e la frase suonava come un proverbio. Noi lo seguivamo in silenzio, con la stessa solennità di chi sta per compiere un rito. Scavalcavamo il muretto basso, ci infilavamo tra le foglie che scricchiolavano sotto i passi, e subito ci trovavamo in un altro mondo: un mondo in cui bastava chiudere gli occhi per sentirsi esploratori o predoni, ladri di dolcezza, ragazzi del Sud in una pagina americana.
Sorvoliamo — per decenza e per istinto di sopravvivenza — sulla quantità d’uva che riuscivamo a ingurgitare, tra una risata e l’altra, nel nostro raid tra i filari. E nello stesso tempo, stendiamo un velo pietoso su ciò che sarebbe potuto accadere se il legittimo proprietario della vigna ci avesse colti sul fatto mentre ci dedicavamo alla sparizione progressiva del suo zibibbo più pregiato: lo scenario prevedeva, con buona probabilità, l’avvicinarsi con circospezione ed immediatamente dopo un inseguimento degno di un film western.
Di quell’uomo, in fondo, non conoscevamo nulla, né il nome, tantomeno volto e voce . Esisteva solo come entità spaventosa e ipotetica, un Orco del mondo agricolo, pronto a materializzarsi all’improvviso brandendo un bastone e urlando, in dialetto stretto, coloriti insulti da censura televisiva di quei tempi (con riferimenti continui a non eleganti mestieri esercitati dalle nostre mamme). Più interessante, piuttosto, era il ritorno. La luce cominciava a piegarsi, l’aria si faceva più gentile. Camminavamo lungo il sentiero polveroso come reduci di un’impresa, con il sapore zuccherino che ancora ci pizzicava la lingua e il sorriso malcelato che ci saliva agli angoli della bocca, testimone silenzioso di ciò che avevamo vissuto insieme. Non era solo la dolcezza dell’uva a renderci leggeri, ma quella sensazione rara e perfetta di aver vissuto un momento che sarebbe rimasto, anche senza bisogno di raccontarlo. Un attimo d’intesa assoluta, in cui tutto — il caldo, la polvere, i grappoli, i passi, il vento — sembrava accordarsi in un’unica nota lunga e luminosa, come una musica che si porta dentro per tutta la vita.
Di quell’uomo, in fondo, non conoscevamo nulla, né il nome, tantomeno volto e voce . Esisteva solo come entità spaventosa e ipotetica, un Orco del mondo agricolo, pronto a materializzarsi all’improvviso brandendo un bastone e urlando, in dialetto stretto, coloriti insulti da censura televisiva di quei tempi (con riferimenti continui a non eleganti mestieri esercitati dalle nostre mamme). Più interessante, piuttosto, era il ritorno. La luce cominciava a piegarsi, l’aria si faceva più gentile. Camminavamo lungo il sentiero polveroso come reduci di un’impresa, con il sapore zuccherino che ancora ci pizzicava la lingua e il sorriso malcelato che ci saliva agli angoli della bocca, testimone silenzioso di ciò che avevamo vissuto insieme. Non era solo la dolcezza dell’uva a renderci leggeri, ma quella sensazione rara e perfetta di aver vissuto un momento che sarebbe rimasto, anche senza bisogno di raccontarlo. Un attimo d’intesa assoluta, in cui tutto — il caldo, la polvere, i grappoli, i passi, il vento — sembrava accordarsi in un’unica nota lunga e luminosa, come una musica che si porta dentro per tutta la vita.
Nei miei amici trovavo anche i confidenti. A fatica, con parole timide e impacciate, si parlava — sottovoce, come se il vento potesse origliare, di una ragazzina del paese. Quella che nel mio immaginario Twainiano raffigurava Becky Thatcher e che. chissà come, ti faceva tremare il cuore senza averti nemmeno sfiorato. Nessuno di noi sapeva cosa fosse davvero l’amore, figuriamoci l’educazione sentimentale o sessuale: nella Sicilia di allora, tutto ciò era materia sospesa, vagamente scandalosa, affidata ai silenzi, agli sguardi, ai sospiri rubati. Io la vedevo spesso al bar, mentre comprava un gelato — al limone o alla nocciola, sempre da sola e restavo qualche passo indietro, come paralizzato. Trovavo stratagemmi puerili per incrociarne gli occhi: fingevo di cercare qualcuno alle sue spalle, mi chinavo a raccogliere qualcosa quando passava, oppure imboccavo a caso una stradina secondaria nella speranza che, per una sorta di magia topografica, ci saremmo ritrovati faccia a faccia. E invece, ogni volta che accadeva, abbassavo lo sguardo, mi facevo piccolo, spettatore tremante del suo passo lento, dei capelli castani, quasi biondi che le scendevano sciolti sulle spalle come fili d’oro. Erano quelli, più di ogni altra cosa, a incantarmi. Li sognavo anche ad occhi aperti: il modo in cui si muovevano quando lei camminava, come trattenessero il debole vento pomeridiano l, come se fossero tessuti di sole.
Con Achille e Pippo ne discutevamo tra un’avventura e l’altra, ma con un tono nuovo, trattenuto, quasi adulto. Pippo, più pratico, sosteneva che avrei dovuto comprarle un anellino con finta pietra preziosa nel negozio di Tindaro Adamo — costava cinquanta lire, diceva, un gesto simbolico ma indimenticabile. Achille, invece, suggeriva di farmi vedere più spesso alla Fontanella, la fonte sorgiva dove le famiglie mandavano i figli a riempire d’acqua freschissima l’orcio in terracotta (u bummulu) . “Lì prima o poi ci passa anche lei”, diceva con quell’aria tranquilla di chi sembrava sempre sapere come vanno le cose, senza doversi inventare nulla. Io annuivo senza dire troppo, soppesando ogni ipotesi come si fa con gli oggetti sacri: volevo dichiararmi, sì, ma non sapevo come; né se davvero lo volessi, o se non bastasse già sognarlo. E oggi, ripensandoci, mi ritrovo nella corsa impacciata e ostinata di Stefano Satta Flores durante la scena del corteggiamento nel film “I Basilischi” di Lina Wertmuller, quando rincorre la ragazza tra i vicoli per dirle, finalmente, qualcosa, qualunque cosa (un appuntamento), pur di non lasciarla andare. La verità è che il desiderio, allora, era fatto di piccoli gesti e grandi paure. Bastava il tremore di un saluto accennato, uno scambio di sguardi che durasse più del necessario, un passo condiviso lungo la stessa stradina e il cuore correva. L’amore era un pensiero non ancora formato, una malinconia gioiosa, un turbamento difficile da nominare. E noi, ragazzini siciliani in un tempo in cui i sentimenti si imparavano per via di silenzi, restavamo lì, a metà strada tra il sogno e il pudore.
E poi veniva la sera della domenica. La fine di un weekend avventuroso, pieno: partite di calcio giocate su campi sterrati, avventure inventate tra le fronde della pineta, segreti condivisi con la naturalezza assoluta di chi non conosce ancora il tradimento. E poi amori acerbi, nomi bisbigliati tra noi come formule magiche, strategie puerili per farci notare, risate che esplodevano senza vergogna, sincere e intere come solo quelle dell’infanzia. Non so che cosa volesse dire, allora, calarmi nei panni di Tom Sawyer. Ricordo soltanto il brivido esatto con cui, dalle pagine del libro, mi gettavo nel mondo: un sentimento a metà fra l’avventura e la rivolta silenziosa, fra il bisogno di giustizia e il diritto di essere diverso. Da quel momento, dentro di me, prese a germogliare qualcosa che non si sarebbe più fermato: un seme tenace che, stagione dopo stagione, avrebbe accompagnato ogni mio passo. Perché in fondo, in quel ragazzino scapestrato con la fionda in tasca e la testa fra le nuvole, io avevo riconosciuto me stesso. E forse, ancora oggi, quel ragazzo è rimasto là, dietro l’ultima curva della Castagnazza: mani sporche di terra, occhi pieni di sole, cuore saturo di promesse. Aggrappato con gratitudine alla libertà che il paese sapeva offrire alla sua immaginazione—repressa per mesi tra palazzi, campanelli e strade piene di auto - quel ragazzo vedeva la fantasia aprirsi come un fiore nella luce di Librizzi, e respirava, all’improvviso, il profumo di un futuro senza confini.
Si tornava a casa. Ed io, seduto sul sedile posteriore dell’auto, con le gambe ancora impolverate e il viso arrossato dal sole, guardavo sfilare il paesaggio dal finestrino. Quelle colline, quei fichidindia, quei viottoli tra i campi, quelle case di pietra mi avevano ancora cambiato — anche se allora non lo sapevo. Ogni volta che partivo per Librizzi, ero un ragazzo di città; ogni volta che tornavo, qualcosa in me si era fatto più silenzioso, più curioso, più vivo. Durante il tragitto, quando mio padre affrontava i tornanti in discesa che da Tindari portavano a Falcone, e poi giù, verso la costa e Messina, io restavo muto. C’erano momenti in cui nessuno parlava, e quel silenzio mi sembrava solenne. Sentivo il rombo basso del motore, il suono regolare delle gomme sull’asfalto, e intanto nella mia mente si sovrapponevano immagini, frammenti, battute, gesti. E nella penombra dell’abitacolo, tra le luci lontane delle case sulla costa tirrenica e l’eco dei giorni appena vissuti, non c’era più Messina, né Librizzi, né la Sicilia stretta nei suoi riti. C’era solo la nostra isola segreta, la pineta, il sapore dello zibibbo rubato, l’aria tiepida sulla pelle — e quel pensiero dolce che restava, come zucchero sulle labbra, mentre gli occhi si chiudevano da soli, vinti dal sonno: Achille non era più John, Huck tornava ad essere semplicemente Pippo — il nostro Pippo ed io, Tom, ridiventavo Peppuccio: così mi chiamavano mia madre e gli amici del paese, e così ancora oggi mi sento, ogni volta che la memoria mi riporta indietro, a quegli anni limpidi e sospesi come un pomeriggio d’estate senza orologio, quando bastava un weekend estivo per sentirsi eroi e un soprannome per sapere chi eravamo davvero.
Dedico questo breve racconto a Pippo Marziano che, purtroppo, non è più tra noi. A lui, che aveva il sorriso pronto e il passo leggero, che sapeva inventare giochi e battute, che trasformava ogni momento in una festa. Il suo essere sempre gioviale, il suo modo di prendere la vita a morsi senza crucci, senza pose, sopravvive nei nostri ricordi, nelle nostre risate bambine, in quella pineta che forse esiste ancora, da qualche parte, tra un sogno e un tramonto. Grazie, Pippo.Per tutto.
Giuseppe Arlotta
6 luglio 2025-
Complimenti all'autore. Splendido
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