LA CAREZZA MANCATA
(Il silenzio, la lontananza e l’arte di restare umani)
Questa scrittura nasce in un tempo di silenzi e distanze. Non è un lamento, ma un esercizio di consapevolezza. È la ricerca di un equilibrio possibile tra la solitudine e la presenza, tra ciò che è rimasto e ciò che si è perduto. Con gli anni, si scopre che non tutto ciò che manca è dolore e che anche l’assenza può diventare una forma di compagnia.
In effetti, il testo è un pensiero lungo sul vivere avanti negli anni, quando le voci si fanno più rare, gli amici più lontani e la vita quotidiana assume il tono sommesso di un dialogo interiore. È un tentativo di dare forma all’invisibile, di riconciliarsi con il tempo e con la fragilità che ci abita. Scrivere, in fondo, è un modo per restare in ascolto. Non del rumore del mondo, ma di quella parte di noi che ancora sa tacere, comprendere, ringraziare.
Ci sono giorni in cui la solitudine non è più una scelta, ma una condizione che si posa addosso come una polvere sottile: impalpabile, ma ostinata. Non la scacci con un gesto né con un pensiero. A volte, quando il silenzio si fa troppo grande, manca una carezza. Non per bisogno, ma per memoria: il segno di un contatto che non chiede nulla, che dice tutto e che, forse più di ogni parola, potrebbe ricordarci di essere ancora vivi.
Ci si accorge che le amicizie vere si sono fatte rade, che gli affetti arrivano a intervalli irregolari, come stagioni che non rispettano più il calendario del cuore. Gli amici più cari — quelli che un tempo bastava un incontro per dare senso alle giornate — abitano ormai altre città, altre vite. La loro lontananza pesa come una condanna lieve ma continua, come un vuoto che non smette di pulsare.
Anche i figli sono lontani, immersi nel vortice delle loro esistenze, nei doveri e nei giorni che li portano sempre altrove. Le videochiamate, sì, sono una bella invenzione: ci si guarda, ci si parla, ci si illude di accorciare la distanza con un sorriso sullo schermo. Ma rimane assente l’essenziale, ciò che nessuna tecnologia potrà mai restituire: l’abbraccio, il contatto vivo della pelle, il calore del respiro vicino. Quell’abbraccio — semplice, antico, necessario — vale più di mille parole. Contiene in sé tutto ciò che la parola non sa dire: la presenza, la verità del corpo, la certezza che qualcuno ti appartiene ancora.
Così si impara, quasi senza volerlo, a convivere con l’assenza. Si impara a misurare il giorno non per ciò che accade, ma per ciò che non accade più. Si accettano le ore vuote, le sere silenziose, i risvegli senza rumore. Si cammina tra le stanze come tra isole. Eppure, dentro questo spazio interiore, cresce una libertà nuova, gracile ma preziosa: la possibilità di appartenersi, di stare con sé stessi senza dover fingere, senza dover tradurre ogni emozione in parole. È una libertà segnata, ma limpida — come un filo d’oro che ricuce una crepa in un vaso antico: mostra la ferita, ma la rende unica.
Ci sono giorni in cui non si ha voglia di uscire. Le vie cittadine sembrano fiumi di parole sprecate, torrenti di voci che non dicono nulla. Si cambia marciapiede per evitare saluti di circostanza, dialoghi che evaporano in banalità. Non è misantropia: è stanchezza. È la fatica di chi, per anni, ha cercato di spiegare, di farsi capire, di comunicare un pensiero compiuto a chi non sapeva accoglierlo. L’ignoranza non è più soltanto mancanza di sapere: è un rumore che deflagra, un’invasione che distrugge ogni forma di silenzio interiore. Così si tace. Non per superbia, ma per pietà del linguaggio.
Anche il corpo reclama la sua parte. Si fa sentire nei dolori improvvisi, nella stanchezza che non passa, nel risveglio che non promette nulla di nuovo. Per molti anni ho pensato di essere immune, protetto dall’abitudine, dalla forza del carattere. Ma la vecchiaia non arriva di colpo: entra in punta di piedi, nei piccoli gesti, nei passi più lenti, nei pensieri che si ripetono. Porta con sé un sentimento doppio: la malinconia del passato e la gratitudine per ciò che ancora resiste. Ed è proprio in questo doppio sentimento che, forse, si nasconde la misura dell’uomo maturo: la capacità di accogliere la propria vulnerabilità e, nello stesso tempo, di custodire la luce che ne filtra.
Così si cercano rifugi. La lettura diventa patria discreta: i libri non tradiscono, non chiedono nulla. Offrono invece la compagnia silenziosa di chi, pur lontano nel tempo, ti parla come un fratello. Si scrive, poi, non per lasciare un segno, ma per ricordare a sé stessi che esistere ha ancora un senso. Le parole diventano conforto per l’anima, piccoli atti di resistenza contro lo scorrere dei giorni che tutto consuma. Ogni frase è un argine contro l’oblio, un modo per dare nome alle ombre.
E quando nemmeno i libri o la scrittura bastano, rimane il camminare in compagnia di Jack. Si esce senza meta, seguendo il ritmo del proprio respiro. Le strade di campagna vuote, il manto stradale umido, il vento che muove appena l’aria: tutto si fa complice. Camminare diventa allora una forma di meditazione laica, una preghiera senza parole, un atto di fedeltà alla vita. Il corpo che si muove, la mente che tace, il cuore che si ricompone — come se il semplice andare potesse, da solo, redimere il peso dell’esistere.
Poi basta alzare lo sguardo. Anche il cielo, immenso e indifferente, diventa approdo quieto. In quel blu che muta appena e nel chiarore che scivola tra le nuvole, sembra esserci una voce muta che ti accoglie. Il tramonto, con i suoi toni lenti, pare dirti che anche la fine può avere dolcezza, se la si abbraccia senza paura. Forse è lì, in quell’altezza vasta e senza confini, che si manifesta il divino. Non come presenza, ma come respiro del mondo. Guardare il cielo diventa un atto di fede nella vita stessa: la certezza che, nonostante tutto, qualcosa di grande continua a perdurare.
Così, giorno dopo giorno, la solitudine cambia volto. Non è più una condanna, ma un modo nuovo di abitare il mondo. È l’ebbrezza sobria di chi ha smesso di inseguire e ha imparato ad ascoltare. È il coraggio di chi sa che anche nel silenzio si può vivere pienamente, e che la vera compagnia — quella che salva — nasce dentro. L’ebbrezza del vivere, quella che un tempo bruciava e logorava, lascia il posto all’ebbrezza del sentire: più lieve, più vera.
E in questa quiete, tra un pensiero e l’altro, si comprende che la vita, anche così spogliata di rumore e di presenza, porta con sé la voce discreta di ciò che non passa, e resta un dono. Fragile, certo, ma degno di essere custodito gelosamente, con la lucidità di chi sa che ogni cosa ha un tempo e che l’anima, quando tace, parla più forte.
Giuseppe Arlotta
17 novembre 2025

E rammentar ci e' dolce, in questo mare . . .
RispondiEliminaGiuseppe Arlotta, aprire il proprio cuore spesso aiuta quello degli altri. Grazie
RispondiElimina