lunedì 11 agosto 2025

GIUSEPPE ARLOTTA: OLTRE LE MASCHERE (Un distacco necessario nell'epoca del rumore )

A quanti compromessi dobbiamo scendere nella nostra vita?, quali comportamenti teniamo anche senza volerlo? Quante persone salutiamo anche se vorremmo girarci dall'altra parte?  Giuseppe Arlotta in questo testo ci fa riflettere sulle maschere che indossiamo a volte....per il quieto vivere .

Giuseppe tornerà alla forma racconto alla fine di questo mese di agosto,  lo voglio ringraziare perchè pubblicando i suoi scritti il blog ha ottenuto complessivamente oltre 1600 visualizzazioni con i lavori a sua firma,  e' un importantissimo valore aggiunto che ha regalato in questa estate 2025  visibilità ulteriore a Mauro at Large.






 OLTRE LE MASCHERE (un distacco necessario nell’epoca del rumore)

 
Talvolta la vita comincia come un ruscello: quieto, docile, trasparente. Segue la forma del terreno, si adatta, si lascia guidare. Ma quel corso d’acqua, col tempo – e più per nostra volontà che per puro caso – si trasforma in un fiume in piena. Trascina con se ciò che avevamo costruito con cura: pensieri, convinzioni, persino identità. Gli argini che avevamo eretto per proteggerci dal conformismo, si rivelano fragili e quando vengono divelti, ci accorgiamo che forse non erano altro che illusioni di coerenza. Per troppo tempo anch’io ho vissuto come se bastasse interpretare bene un ruolo per salvare la propria anima. Ho indossato “volti” scelti con disciplina, convinto che il silenzio fosse saggezza, che il consenso fosse civiltà, che l’adattamento fosse segno d’intelligenza. Ma con il tempo ho capito che indossare una maschera è come versare olio su uno specchio: si perde ogni riflesso, e finisce che non si riconosce più nulla.
 
Ci sono momenti in cui si realizza che nessuno ci ha mai davvero visti. Non perché ci si sia nascosti, ma perché siamo rimasti troppo occupati a interpretare ciò che gli altri si aspettavano. Siamo diventati caricature delle attese altrui, prigionieri di ruoli nati dal timore di essere fraintesi. Così, ciò che eravamo davvero si è assottigliato fino a divenire invisibile anche ai nostri stessi occhi. “Nessuno lo seppe mai: mi sono sempre travestito”, avrebbe potuto confessare uno dei personaggi di Pirandello. E come Vitangelo Moscarda, ho scoperto che l’immagine riflessa negli sguardi altrui è una gabbia: mille occhi proiettati su di te, ma nessuno realmente tuo. A differenza di Vitangelo, però, ho lasciato che passasse troppo tempo prima di tentare la fuga. Ho accettato compromessi, stretto mani sporche di menzogne, sorriso quando avrei dovuto dissentire, taciuto quando avrei potuto pronunciare verità più trasparenti.
 
Ormai da tempo non trucco più il pensiero. Ho smesso di essere ciò che altri credevano, o desideravano, che io fossi. Non c’è stato un giorno preciso, nessun colpo di scena: è accaduto come cadono le foglie d’autunno, una alla volta, senza rumore. Ho lasciato andare ciò che non parlava più la mia lingua, smesso di difendere ciò che non avevo scelto, abbandonato luoghi in cui l’anima si piega per adattarsi. Oggi non porto più maschere — almeno, credo. Non per orgoglio o coraggio, ma per una stanchezza buona, quella che ti riconduce a casa. Non è stata una rivoluzione, né una rinascita da esibire: è stata una sottrazione paziente, un ritorno misurato alla mia voce interiore.
 
Non è stato un percorso da comunicare, ma una fedeltà maturata nel silenzio, spesso nella solitudine. Ed è proprio lì, in quello spazio muto e appartato, che ho ritrovato ciò che davvero conta: parole che non tremano, gesti che non cercano testimoni, sguardi che non hanno bisogno di approvazione. Ho imparato a stare lontano dai luoghi dove le frasi si svuotano, dove i contegni si recitano, dove la presenza è solo un obbligo sociale. Non è stato scappare, ma un ritorno a una verità essenziale: quella che non pretende di essere spiegata, ma semplicemente vissuta. Chi sa ascoltare, intuisce. Chi non è interessato, non ascolterà comunque. E va bene così. C’è una forma di rispetto che consiste nel non invadere lo spazio dell’altro con i propri malesseri, né con le proprie convinzioni. Resta lo spazio interiore, quel giardino difficile da coltivare, ma capace di offrire frutti silenziosi e duraturi.
 
E so di non essere solo. C’è chi, come me, ha scelto la via obliqua della discrezione, la resistenza gentile della coerenza. Non fa rumore, non cerca platee. Ma esiste. E talvolta ci si riconosce tra simili senza parlare, come raggi di luce che si intrecciano nel buio. Nel tempo, ho visto molti cercare conferma in ogni specchio, in ogni consenso, come se il valore di una vita si misurasse nella propria  visibilità. Io, ormai, no. Ho imparato a preferire la discrezione, a custodire le mie convinzioni come si custodisce ciò che è delicato e prezioso. E ho capito che la fedeltà a sé stessi ha solo bisogno di essere nutrita. Non altro.
 
Ciò che mi interessa ora è ciò che resta. Non ciò che abbaglia, né ciò che corre. Resta un pensiero che torna, una parola che dura, un gesto che non cerca scena. Resta l’intenzione, la qualità dell’ascolto, la sobrietà di uno sguardo. E forse, se qualcosa può salvarci, è proprio questa cura silenziosa del nostro paesaggio interiore. Ho rinunciato da tempo al desiderio di essere compreso da tutti. Non per arroganza, ma per lucidità. So che esistono verità che si possono solo sfiorare, mai imporre. E altre che non si possono dire affatto, ma si trasmettono solo tra coloro che hanno percorso lo stesso cammino, nella stessa quiete. Ogni tanto mi chiedono perché a volte dico poco e non spiego meglio - la risposta è semplice: non voglio aggiungere rumore.
 
Alcune strade non portano più da nessuna parte. E arriva un tempo in cui bisogna smettere di percorrerle. Forse è proprio questo che manca oggi: il coraggio della sottrazione. Non abbiamo bisogno di accumulare altro, ma di togliere. Togliere parole vuote, presenze forzate, compromessi con il proprio sentire. L’interiorità non è un rifugio per deboli, ma un dovere per chi vuole restare umano. E so - e ancora lo ripeto -, che non sono solo. Anche se là fuori il mondo grida, ostenta, ha fretta, c’è chi lavora in silenzio, chi semina senza clamore, chi ascolta davvero. C’è chi non si lascia più trascinare dal vortice dell’urgenza, chi ha imparato a distinguere l’essenziale dal superfluo. Spesso passano inosservati, non parlano. Ma esistono. E, forse, ci si riconosce così: non per ciò che si dice, ma per ciò che si sceglie di non dire.
 
Non ho nostalgie, né rancori. Solo uno sguardo più limpido su ciò che vale. E un desiderio semplice: vivere senza dovermi giustificare, senza dovermi mostrare. In pace con ciò che sono diventato, e attento a non tradirlo. Forse la vera libertà non è dire tutto, ma sapere cosa custodire. È abitare la propria profondità senza temere il silenzio, accettando che non tutto debba essere compreso, né restituito. C’è una pace che non coincide con la quiete, ma con il coraggio di restare fedeli alla propria voce, anche quando il mondo ne chiede un’altra. Non si tratta di ribellione, né di orgoglio. È solo che, a un certo punto, smetti di fingere di non sapere chi sei.
 
Giuseppe Arlotta
 
10 agosto 2025

3 commenti:

  1. Giuseppe at large

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  2. Grace Orestelli11 agosto, 2025 21:58

    Tutto assolutamente pienamente condivisibile....finalmente aver compreso che la libertà, quella vera, non è dire tutto, bensì saper tacere e così facendo trovare la propria serenità e quiete, noncuranti dell'opinione altrui!

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