HO CHIESTO ALLA CARA MARIA GIULIA ALEMANNO IL PERMESSO DI RIPUBBLICARE QUESTO SUO BELLISSIMO SCRITTO SUL CINEMA MODERNO DI CRESCENTINO, UN PEZZO DI STORIA MAGNIFICAMENTE DESCRITTO , NON SOLO UNA GRANDE PITTRICE ED ARTISTA MA ANCHE UNA FANTASTICA SCRITTRICE!

Così era il Cinema Teatro Moderno a Crescentino (Vercelli)
IIL CINEMA TEATRO MODERNO, il nostro Cinema Paradiso
Anche Crescentino ha avuto il suo Nuovo Cinema Paradiso. Quando lo inaugurarono, sul finire degli anni venti, poco dopo l’avvento del sonoro, decisero di chiamarlo Moderno quasi a volerne affermare la perenne attualità nel tempo. La città andava fiera di una sala che non aveva nulla da invidiare a quelle di Torino. “430 posti a sedere sufficienti per i bisogni di questa popolazione“ si pregiava di comunicare il podestà nel dicembre del ’34 alla questura di Vercelli, non dimenticando di sottolinearne la natura poliedrica. Non solo un cinema ma un teatro in piena regola, dotato di un grande palcoscenico, di camerini spaziosi e di un’acustica perfetta. Bastava poi rimuovere le sedie della platea, perché si trasformasse in una sala da ballo ideale per le veglie e i veglioni, occasioni mondane per eccellenza, specie a capodanno e nei giorni di carnevale. La voce correva e arrivavano in molti anche dalle cascine delle Grange, dalla collina, dai paesi vicini. Le signore facevano sfoggio di eleganza, gli uomini, tra un ballo e l’altro, parlavano d’affari. Cucina piemontese, buon vino, valzer e mazurche fino all’alba. A casa le donne ritiravano nei cassetti, tra i santini e le foto delle prime comunioni, anche i fogli del menù che per mesi diventavano motivo di commento e l’anno seguente di confronto.
I tre proprietari del Cinema Teatro Moderno, Pavese, Franco e Pagliuzzi sembravano però privilegiare la scelta delle proiezioni. Nel giugno del 36 arrivò dai fratelli Lupi la proposta di uno spettacolo “gradito e ben accetto ovunque oltrechè nella sede invernale della compagnia, il teatro Gianduia di Torino” La risposta del solito podestà fu sintetica e lapidaria.”Il signor Pagliuzzi Pietro mi ha dichiarato di non poterlo cedere in affitto perché in detto teatro vi deve dare, in tutte le sere dei giorni festivi delle rappresentazioni cinematografiche. Nelle altre serate non ritengo che le recite possano avere successo.” Fine. Tra i titoli scelti dal gestore per deliziare il suo pubblico: Don Bosco, incasso lordo 460 lire, numero di spettatori 220, accoglienza assai favorevole. Grande successo di Casta Diva e del Re Burlone. Pietoso velo invece sull’Eredità dello Zio Buonanima. Lo videro in 44. Incasso, netto da tassa erariale, 11 lire. Un disastro. Forse tra i 44 irriducibili presenti in sala c’era anche quel Michelangelo Piovano, da tutti conosciuto come l’Angelo, fotografo, legatore e cinefilo appassionato, che il 15 d’agosto del ‘24 in occasione della festa della Madonna del Palazzo, aveva orgogliosamente presentato a tutti la strabiliante invenzione che avrebbe permesso di sincronizzare il sonoro ai film muti. Il Cinefono Piovano, brevetto n.236040, non gli procurò mai né la fama ne la fortuna del proiettore Pathè, ma almeno servì per regalare ai crescentinesi una serata di magia.
Dopo il dramma della guerra, anche per il cinema di Crescentino venne il momento di rinnovarsi. Per l’ingresso scelsero il marmo, variegato per il pavimento, chiaro per la scala che conduceva alla galleria, ampia e disposta a ferro di cavallo. Le file delle sedie erano in legno, le tende scure e tremendamente pesanti. Nella mia fantasia di bambina, sul finire degli anni 50, nulla era più vicino al sogno del suo grande frontone, un bizzarro connubio tra l’architettura di una chiesa messicana ed il nostro barocco semplificato in onde sormontate da pennacchi che, accentuandone la maestà, lo rendevano diverso da ogni altro edificio del paese. Scenografico lo era di certo, incorniciato dalle arcate dei portici sullo sfondo del ponte sul Po e della rocca di Verrua Savoia, terreno di battaglie sanguinose tra i francesi e l’esercito sabaudo. Per me e per i miei compagni quella era soprattutto la direzione dell’avventura, snodo di tre province, crocevia del mondo.
Al cinema ci si andava fin dai primi anni delle elementari, di rado accompagnati dai genitori. Sapevano che si trattava di un luogo sicuro e che mezzo paese ci avrebbe tenuti sotto controllo. Nei miei ricordi quelle domeniche pomeriggio rimangono per lo più avvolte nei colori dell’autunno e dell’inverno. Uscivamo dalle nebbie ed entravamo al “cine”. Si aprivano per noi paesaggi luminosi e cieli sconfinati.
Ci davamo appuntamento sotto i tigli del viale di San Rocco. Io, la Ina, la Rita, la Laura, la Gege, incontravamo poco più avanti, sulla piazza del mercato, il Riccardo, l’Ezio, il Silvano, il Pierangelo. Ci legavano l’amicizia e l’articolo davanti ai nostri nomi, una sorta di cantilena-collante a cui neppure oggi, benché consapevoli dell’errore, riusciamo a rinunciare. Arrivavano poi la Pinuccia, la Carletta, l’Enzino, il Roby… e via, tutti insieme verso la biglietteria. L’unica delle madri a non mancare mai era la Luigina, la mamma dell’Ezio, che anche lì esercitava appieno il suo potere di bidella per metterci tutti in riga. Di solito per il figlio, oltre al biglietto, chiedeva alla Carulina, presenza quasi fossile dietro al banchetto delle bibite accanto alla cassa- , di venderle una striscia di tiramolla e una bottiglietta di gassosa con la cannuccia. Totale 50 lire.

La platea del Cinema Moderno. Tante figure della vecchia Crescentino.
La distribuzione degli spettatori in platea, fatta eccezione per gli spettacoli teatrali, avveniva secondo un copione assai rigido. I bambini sempre nelle prime file, a metà le coppie sposate, al fondo gli uomini soli. Il controllo spettava al Pierin Fogliato, baffetti e capelli sparati, molto compreso nella doppia parte di maschera e di organizzatore. La galleria era affidata invece ad una gestione più anarchica, per quanto tutti rispettassero il posto fisso degli affezionati. Ci si accedeva solo quando si passava alle scuole medie, mai prima, quasi si trattasse di un rito d’iniziazione. Occorrevano tempo e pazienza per salire di livello, più o meno come nelle processioni del venerdì santo, dove non potevi diventare la Veronica se prima non eri stata angioletto, piansulenta e pia donna.
Si apriva il sipario e nel grande cono di luce iniziava a fluttuare il fumo delle sigarette, accese in continua intermittenza come lucine del presepio. Fumavano gli uomini che per tutta la durata del film tenevano il cappello in testa come Humphrey Bogart, imbacuccati in cappotti pesanti. Fumavano i ragazzi della galleria, cercando di non farsi scoprire dai padri fumatori e fumavano le ragazze più emancipate, lanciando nel buio i primi messaggi di libertà. Era tutta una storia di fumo. Fumo in sala e fumo dallo schermo, se ci si mettevano anche gli Apaches a scambiarsi segnali nelle grandi praterie. Ma era anche e soprattutto, ogni volta, la storia di una partecipazione corale di pancia e di cuore, di corpi e voci che si alzavano quando arrivavano i nostri, di grandi e bambini che incitavano l’eroe, di fiato sospeso nelle scene d’azione, di applausi calorosi dopo una serie baci appassionati.
Il cinema era sempre al gran completo, il giovedì, il sabato e la domenica se in cartellone c’erano i colossal. Mitici. Irrinunciabili. Interminabili. Tanto che il Pierin Pagliuzzi perdeva la pazienza e a volte decideva di dare un taglio, senza preoccuparsi troppo se l’interruzione avveniva nel bel mezzo di una scena madre. Allora si avvertiva come un cigolio, un rumore di ferraglie, sullo schermo compariva una striscia bianca, si chiudeva il sipario e i più scalmanati gridavano: Pagliuzzi! Pagliuzzi!.. rivendicando il sacrosanto diritto di sapere che fine avesse fatto il popolo di Mosè, rimasto in mezzo al mare, in fuga dalle ire del faraone. Il Pagliuzzi, barricato nel suo stanzino dietro al proiettore, non mostrava il benché minimo turbamento se I dieci Comandamenti diventavano nove. In fondo, già negli anni trenta , aveva dato scarso peso ai richiami del solito podestà che lo sollecitava, su pressione dell’Istituto Nazionale L.U.C.E, “ad includere in ogni spettacolo, un documentario a scopo di propaganda e cultura a mezzo della cinematografia”. Il Cinema Moderno era una sua creatura e toccava a lui decidere se attenersi “alla lettera e allo spirito della Legge”. Un notiziario in meno ogni tanto non avrebbe cambiato la vita di nessuno, né un taglio a Via col Vento si sarebbe mai tradotto in insanabile ferita.
Frequentavo la terza elementare, quando mia madre m’ impose per la prima volta di effettuare una scelta. O Luciano Tajoli, che veniva a cantare il sabato sera, o Marcellino Pane e Vino, la domenica pomeriggio. Tutti e due no, era chiedere troppo. Decisi per Luciano Tajoli. Nelle prime file era schierata una folta rappresentanza della mia immensa parentela, gli zii di San Grisante, i cugini della Campagna, persino la nonna che non usciva mai. Iniziarono a piangere in coro fin dalle prime note di “Mamma” e quando lo zio Cesare senti intonare “Balocchi e profumi” il suo singhiozzo contagiò tutta la sala. Non c’era spettatore che non avesse gli occhi lucidi, non uno che non tirasse fuori il fazzoletto. Neanche il prestigiatore che nell’intervallo tentò di allietarci con le sue magie, riuscì ad estorcerci un sorriso. Furono tutti concordi nel dire che era stata una serata magnifica, che non si ricordavano di aver mai versato così tante lacrime. La vicenda del povero Marcellino ,che conobbi in seguito dalla televisione, aveva al confronto la leggerezza dello zucchero filato.
Quando finalmente noi ragazze potemmo spostarci in galleria, la visione dei film e della vita ci apparve diversa. Ci sedevamo in prima fila per meglio controllare il traffico della platea e, di tanto in tanto, davamo un’occhiata a quel che succedeva dietro di noi. Film nel film, c’era sempre un gran movimento. Si intrecciavano sguardi, nascevano amori. Più forte era la passione, più le coppie tendevano a salire. Il buio dell’ultima fila era riservato a quelle con i capelli cotonati e i tacchi a spillo, non certo a noi che portavamo ancora i gambaletti di lana. Spesso da dietro le tende comparivano anche i nostri insegnanti delle medie, la signorina Gozzola che l’indomani ci chiedeva puntualmente trama e commento ed il professor Bosso, sigaretta sempre accesa e l’eleganza di Cary Grant. Diceva: “Cominciate a pensarci. Martedì faremo un disegno sul western all’italiana.” Ancora ricordo la mia interpretazione di “Per un dollaro bucato”. Una sparatoria circolare su sfondo rosso sangue.
In pochi anni anche noi rinunciammo al gioco dei pettegolezzi per rifugiarci sempre più in alto, non di rado con uno degli scalmanati dei palchi laterali. “E’ una ruota che gira”, commentava senza scomporsi mio padre.
La ruota girò anche per il Cinema Teatro Moderno finchè un giorno si fermò.
Quando, a metà degli anni ottanta, si seppe che l’avrebbero convertito in supermercato, come per la perdita di un parente caro fummo in molti a provare un dolore sordo, seguito da una lieve, persistente malinconia. Calava il sipario sulla nostra storia. Finiva il film della nostra giovinezza.
Maria Giulia Alemanno
Splendido…grazie e continui a scrivere sulla Crescentino che è stata
RispondiEliminaGrazie, caro Mauro, per le belle parole che mi hai dedicato e per aver condiviso con i tuoi tanti lettori un pezzo di storia della nostra amata Crescentino. Le ore trascorse al cinema sono rimaste nel cuore di tanti di noi. Uno stazio indimenticabile che ci manca...
RispondiEliminaSono un po’ più “piccola” di Lei, cara Maria Giulia, ma anche le mie prime uscite da sola, con gli amici, alla domenica pomeriggio, sono state al “cinema”… dolci ricordi lontani, primi pomeriggi “da grandi”, nostalgie…
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