TUTTI GIU’ DALLA TORRE
- riflessioni su mainstream e leccaculismo crescentinese -
Nelle piccole realtà di provincia come Crescentino, il “mainstream” non ha bisogno di televisioni o di firme autorevoli. Esiste già, spontaneo e capillare: è la piazza, il giornalaio, il negozio, il circolo ricreativo. Sono quei luoghi in cui la conversazione quotidiana si traveste da informazione, la chiacchiera da giudizio, l’impressione da verità. Una frase mormorata diventa, dopo tre passaggi, certezza assoluta; un sospetto lanciato tra un caffè e l’altro in uno dei (ormai non so quanti..) bar cittadini si trasforma in titolo a caratteri cubitali. Non c’è necessità di verifiche: il timbro dell’opinione comune è più rapido e più implacabile di qualunque tribunale.
Questo “sistema informativo parallelo” ha la sua liturgia, i suoi officianti e i suoi fedeli. Tutti contribuiscono, pochi se ne assumono la responsabilità. “L’ho sentito dire”, “così gira la voce”: formule d’assoluzione preventiva che permettono a chiunque di contribuire al pettegolezzo senza mai sentirsi colpevole. Nel frattempo, però, il danno è fatto. La reputazione di un uomo, la valutazione di un’idea, persino il ricordo di una stagione politica: tutto può essere plasmato dalla leggerezza di una chiacchiera ripetuta abbastanza volte.
Dentro questa dinamica, che potrebbe sembrare folkloristica ma che è invece profondamente corrosiva, si muove la figura più costante del paesaggio umano: l’opportunista di piccolo cabotaggio, il cosiddetto “insalivatore di natiche”. È un personaggio che non conosce crisi, sempre pronto ad aggiornarsi alle circostanze, capace di captare l’orientamento del vento prima ancora che cominci a soffiare. Non servono sondaggi né dati scientifici: il loro fiuto è infallibile, e li porta invariabilmente verso chi sembra destinato a vincere.
Quando si rappresentano le istituzioni, li si incontra ovunque. Hanno il dono di presentarsi con sorrisi larghi, con parole solenni, con promesse di fedeltà eterna. Lodano l’impegno, magnificano l’onestà, si dicono onorati di poter rivolgere una richiesta. E le richieste arrivano, sempre. Non tanto per grandi ideali, ma per favori minimi, per scorciatoie che appaiono vitali nel loro piccolo orizzonte quotidiano. E quasi sempre ottengono ciò che cercano, perché sanno come modulare la voce, come accennare la supplica, come blandire con la delicatezza di chi ha lunga esperienza.
Il vero spettacolo comincia però quando le stagioni cambiano. Basta una sconfitta elettorale, e la metamorfosi è immediata. I devoti di ieri diventano i critici di oggi. I toni si rovesciano con una naturalezza che lascia interdetti: ciò che fino a ieri era virtù diventa improvvisamente vizio, ciò che era motivo di orgoglio diventa ragione di vergogna. Non si limitano a tacere o a defilarsi con discrezione: devono gridare di essere sempre stati altrove, di aver sempre avuto dubbi, di aver visto tutto con largo anticipo. Il fervore con cui rinnegano è inversamente proporzionale alla devozione che avevano mostrato.
Ed è qui che la dignità si rivela per ciò che è: un optional, non un principio. Perché l’adulazione in tempo di potere, per quanto stucchevole, è comprensibile. Ma l’insulto al momento della caduta mostra la natura più autentica dell’opportunismo: quella che non conosce memoria, che non ammette riconoscenza, che non concepisce la fedeltà. È il trionfo dell’adattamento servile, che non si limita a cambiare padrone, ma sente il bisogno di dimostrare la propria lealtà nuova sputando sul padrone vecchio.
Il “carro del vincitore” diventa così l’immagine più fedele di questo piccolo teatro sociale. È sempre lo stesso, cambia solo chi lo guida. Sul carro ci si stringe, ci si arrampica, ci si spinge pur di non restare a terra. Lì sopra, i volti di ieri si confondono con quelli di oggi, e nessuno sembra ricordare di aver fatto il percorso inverso poco tempo prima. E il coro della piazza, che funge da mainstream locale, applaude la rapidità del salto con la stessa convinzione con cui, ieri, applaudiva la fedeltà ostentata.
Si potrebbe ridere di tutto questo, se non fosse che il risultato finale è la stagnazione. La comunità non avanza, perché a prevalere non è la competenza, ma la prontezza a piegarsi; non è la forza delle idee, ma l’agilità dell’inchino. Così il paese si abitua a premiare non chi ha visione, ma chi ha fiuto; non chi costruisce, ma chi si accoda. E il dibattito si riduce a un susseguirsi di cori anonimi: oggi il nome da incensare, domani quello da denigrare, sempre con la stessa leggerezza, con la stessa convinzione.
Ieri bastava una maldicenza al bar, oggi serve un post indignato, corredato da qualche emoticon. Ma la sostanza non cambia: è sempre il meccanismo dell’anonimo che si fa giudice, dell’adulatore che si fa detrattore, del carro che si riempie e si svuota a seconda della stagione. Il tempo passa, le forme mutano, ma il copione resta identico.
Ed è proprio qui che emerge la vera tragedia, mascherata da farsa quotidiana: il fatto che, a forza di abituarsi a questo andazzo, non solo si ridicolizza la politica, ma si impoverisce il tessuto morale stesso della comunità. Perché se tutto è opinione che diventa verità, se ogni fedeltà è reversibile, se ogni insulto è giustificabile con un “così va il mondo”, allora il risultato è che nessuno risponde più delle proprie parole e delle proprie scelte. E senza responsabilità non c’è rispetto, senza rispetto non c’è convivenza, senza convivenza non c’è futuro.
Alla fine, ciò che resta non è la memoria delle vittorie o delle sconfitte, ma la misura della dignità collettiva. Una misura che non si calcola sulle elezioni vinte o perse, ma sulla capacità di guardare indietro senza vergognarsi di ciò che si è detto o fatto. Tutto il resto – le voci, le adulazioni, le maldicenze, le conversioni improvvise – non è che rumore di fondo. Ed è un rumore che, per quanto assordante, il tempo cancellerà. Quel che resterà sarà soltanto la traccia, sottile ma indelebile, della serietà o della miseria con cui ciascuno avrà abitato il proprio piccolo teatro
Giuseppe Arlotta
9 settembre 2025
Impeccabile.
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