lunedì 29 settembre 2025

GIUSEPPE ARLOTTA: IL CAMILLINO DI ORLANDO, BARBIERE LIBRIZZESE ( Cronaca sentimentale di chiacchiere, rasoi e gelati )

Cari lettori,  mettetevi comodi e godetevi il nuovo racconto di Giuseppe Arlotta,  assaporate il calore di una estate siciliana  che riscalderà queste prime giornate piuttosto fredde.

ATTENZIONE,  IL RACCONTO CONTINUA DOPO LA SECONDA FOTOGRAFIA  CHE TROVATE NEL POST.

BUONA LETTURA




   Il CAMILLINO DI ORLANDO, BARBIERE LIBRIZZESE

 
                                   (Cronaca sentimentale di chiacchiere, rasoi e gelati)
 
Non era certo un coiffeur pour homme, e nemmeno un barbershop come si vedono oggi con scritte a caratteri vintage e lampade a spirale bianco-rosso-blu. No, quello di Orlando era semplicemente “u saluni”, come dicevano tutti in paese, con quella "u" davanti che sapeva di appartenenza, di consuetudine, di casa. Una stanzetta non molto illuminata, incastonata tra la macelleria di Nino Gugliotta — dove le carni rosse e le voci erano sempre in mostra — e la merceria di Mariannina Natoli, regno di spilli, rocchetti, bottoni e pettegolezzi inamidati. Era questo l'angolo di piazza Catena che il sole per gran parte della giornata pareva ignorare, come se avesse rispetto per quella penombra, per quella frescura che, nelle giornate d’estate, diventava rifugio per vecchi e giovani in cerca di tregua dal caldo a picco.
 
All’ingresso c’era una tenda, come si usava allora, fatta di strisce di plastica color blu scuro — quasi a voler fare pendant con l’ambiente — che serviva a tenere fuori le mosche e, al tempo stesso, a ogni suo spostamento, causato dall’arrivo di un probabile cliente, produceva un lieve fruscio, discreto e inconfondibile. Attraversarla era come varcare una soglia di confine: fuori restava la luce accecante, il brusio della piazza e la polvere delle strade; dentro ti accoglieva un universo raccolto, sospeso, dove tutto aveva un ritmo diverso. Si veniva subito investiti da un miscuglio di odori familiari: la colonia economica, di quelle che pizzicavano un po’ sulla pelle ma sapevano di pulito, e il sapone da barba in ciotola, denso e biancastro, nel quale Orlando intingeva il pennello umido con la lentezza cerimoniosa di un rituale tramandato da secoli. Lì dentro il tempo non correva: colava come la schiuma lungo le lame durante la rasatura.
 
Orlando si chiamava così, come il paladino. E a sentirlo parlare, certe volte, pareva davvero uscito da una chanson de geste, con la voce stentorea e la gestualità teatrale di chi ha letto poco ma ha osservato molto. Sedeva spesso fuori, sul marciapiede, su una sedia larga, di quelle con le stecche di legno e la seduta di paglia ormai un po’ sfibrata. Di fronte si disponevano amici, clienti, pensionati, disoccupati momentanei, ragazzi che ancora non si radevano ma già ascoltavano come apprendisti di una scuola invisibile. Non di rado si assisteva a memorabili partite di dama disputate tra Orlando e suo fratello Fiore, che in questa disciplina eccellevano mostrando all’eterogeneo consesso abilità impareggiabili. Ogni volta, più che una semplice sfida tra due fratelli, pareva di assistere a un duello di intelligenze, una versione paesana — e non meno solenne — delle leggendarie sfide a scacchi tra Fischer e Spassky. Con la differenza che qui non c’erano i riflettori del mondo né le ombre della Guerra Fredda, ma la concentrazione dei giocatori e il silenzio rispettoso degli astanti riuscivano comunque a trasformare la dama in un’epopea, e ogni pedina mossa sul tavolino pareva avere il peso di una scelta storica.
 
Il salone di Orlando era molto più di un locale dove si tagliavano i capelli. Era un luogo dove si aggiustavano anime, un confessionale laico, una sala d’attesa della vita. Ma era proprio all’esterno, nell’ombra protettiva di quell’angolo dimenticato dal sole, che il barbiere esercitava il suo vero mestiere: quello di narratore, di opinionista, di confidente, di giudice e talvolta persino di profeta. Il suo “salone” era un piccolo teatro di provincia, senza sipario e senza copione, dove si imparava a stare con gli altri, ad ascoltare senza parlare troppo, a sorridere senza capire tutto. Il barbiere teneva banco con naturalezza. Si parlava di sport — ovviamente di Juventus, Inter e Milan se si era in vena di discussioni accese, del Palermo e del Messina se si cercava conforto nella malinconia — ma anche del prezzo delle nocciole, che erano per Librizzi quello che la vite è per Barolo: una risorsa, un’identità, un’ossessione stagionale. Poi, inevitabilmente, si scivolava nel gossip paesano: chi si era lasciato dopo lungo fidanzamento, chi aveva visto chi con chi, oppure chi aveva osato non salutare il tal dei tali o la zia Carmela quel giorno al cimitero. Quando qualcuno disturbava parlando a voce alta, Orlando alzava una mano e diceva: «Muti, ca è finiri i parrari», e indicando un ragazzo: «Poi ci tagghiu i capiddi a stu carusu».
 
Dentro, le poltrone girevoli in similpelle e le due specchiere con cornici di legno sbeccato facevano da sfondo a una quotidianità quasi immutabile. La radio gracchiava a basso volume, un vecchio calendario di ferramenta riportava ancora il mese di febbraio, e c’erano sempre uno o due clienti in attesa che sfogliavano riviste vecchie, fingendo di leggere mentre origliavano tutto. Da Orlando ci andavo per farmi tagliare i capelli, certo, ma forse anche per compiacermi. Per sentirmi parte di quel mondo di uomini adulti, di battute a doppio senso, di sentenze pronunciate tra uno spruzzo di colonia e l’altro. E poi, diciamolo, per cinquanta lire in più, Orlando ti massaggiava per cinque minuti il viso con il pennello intriso di schiuma da barba e poi ti passava il rasoio sulle guance e sul mento per eliminare i quattro peli che cominciavano a fiorire incerti. Erano proprio quattro, sparsi e radi come l’erba in certi appezzamenti inariditi dal sole, ma vuoi mettere? Ti illudevi che fosse barba, ti pareva d’essere grande, ti convincevi che quello fosse un passaggio dovuto per entrare nella fase della maturità…
 
Così, nella comoda poltrona da barbiere — avvolgente e un po’ rigida, come se fosse stata costruita apposta per impedirti di scappare — ti ritrovavi avvolto in una tovaglietta bianca che Orlando sistemava con gesti rapidi e sicuri, stringendola tra petto e collo. Era il preludio a una consuetudine che, pur ripetuta ogni giorno decine di volte, conservava intatto il sapore del rito: il rasoio, prima di incontrare la pelle, veniva fatto scivolare avanti e indietro sulla vecchia striscia di cuoio appesa al muro. Il rumore secco e cadenzato, quasi musicale, sembrava quello di un metronomo che dettava il tempo dell’intera stanza. E mentre Orlando preparava la lama al suo compito, non perdeva occasione per parlare: raccontava storie di paese, commentava le notizie della radio e coloriva il tutto con osservazioni ironiche che facevano sorridere più che discutere. Era, a suo modo, un barbiere-oratore, un uomo che aveva trasformato il mestiere in spettacolo e il salone in palcoscenico. Ad affilatura terminata, deponeva con cura l’acciaio sulla mensola e, afferrato il pennello come un artista pronto a dipingere, lo immergeva nella ciotola del sapone da barba, iniziando a montarlo con energia. La schiuma cresceva, gonfia e leggera, fino a diventare un volume soffice che ricordava lo zucchero filato delle feste patronali, quello che i bambini si trascinavano dietro come una nuvola bianca appiccicosa.
 
E proprio in quei momenti il tuo viso mutava natura: non era più semplice pelle, ma superficie viva pronta a trasformarsi. Orlando, con la pazienza del pittore davanti alla sua tela, stendeva il bianco uniforme con movimenti circolari, delicati ma decisi. Ogni pennellata era un atto di maestria: il volto, poco prima anonimo, assumeva l’aspetto di una base preparata a dovere, pronta ad accogliere colori e forme, come un quadro in attesa della sua rivelazione. Sul finire del servizio, mentre l’ultima schiuma scivolava sul collo e il rasoio tornava a cantare contro il cuoio, Orlando si fermava, lo faceva con l’aria soddisfatta di chi contempla il proprio lavoro e trova quel “ci siamo quasi”. Ti guardava come un artista guarda la sua bozza: non una composizione finita, ma già qualcosa che merita attenzione. Se poi, a lavoro ultimato, un peletto ribelle, un intruso sfuggito alla preparazione, osava farsi notare, ecco la lama rientrare in scena con la rapidità del tratto finale, il colpo d’artista che completa il dipinto.
 
E se a volte quell’ansia di perfezione faceva comparire una sottile linea di rosso, Orlando non si scomponeva. Allungava la mano verso l’allume di rocca — ormai ridotto a un mozzicone per i tanti ritocchi fatti — e lo passava con gesto deciso sulla ferita. L’effetto pizzicava, ma il barbiere, con la sua ironia sorniona, sembrava quasi dirti che in un’opera d’arte un tocco di rosso non guasta mai; anzi, rende più viva la composizione: un ritratto senza sangue, dopotutto, non sarebbe realistico. Il tuo volto diventava così un quadro provvisorio, esposto non in una galleria di lusso, ma in quell’atelier improvvisato che odorava di colonia a buon mercato, di sapone da barba e di chiacchiere paesane. Un capolavoro effimero, destinato a svanire nel momento in cui la tovaglietta veniva sciolta dal collo, ma che per qualche istante ti illudeva di essere il protagonista di una creazione unica.
 
E alla fine, quando Orlando si ritraeva, aveva quell’espressione che mescolava l’orgoglio dell’artista per il lavoro appena eseguito e la soddisfazione più terrena di chi pregusta il compenso. D’altronde, anche i maestri più celebrati, da Michelangelo in giù, non restavano insensibili al richiamo del denaro. Così, tra un colpo di pennello e uno di rasoio, Orlando riusciva a unire l’estro creativo al senso pratico del mestiere e tu eri pronto a rialzarti con la faccia fresca e la pelle liscia come seta. Non eri più soltanto un cliente che aveva ricevuto un servizio: eri stato il modello di un artista sui generis, un quadro temporaneo, un esperimento pittorico finito troppo presto. E mentre uscivi con il mento levigato e l’orgoglio intatto, quasi ti dispiaceva che quell’opera non potesse restare appesa a una parete. Ma forse, pensandoci bene, era giusto così. I quadri veri restano nei musei, le rasature vere restano nella memoria.
  ( CONTINUA )
La piazza di Librizzi era allora il cuore pulsante del paese. Una ribalta di voci, sguardi e abitudini quotidiane che sembravano ripetersi sempre uguali, ma che ogni volta rivelavano sfumature nuove. In quelle ore del pomeriggio, quando il sole era ancora alto e l’aria continuava a sapere di pane caldo e di bucato steso, c’era una piccola liturgia che non mancava mai di compiersi. Il barbiere Orlando, uomo dalla stazza imponente e dall’appetito proporzionato, dopo la pausa pranzo si sistemava al tavolino del bar “di sopra” di don Ciccio. Immancabilmente, al termine del pasto abbondante, si concedeva il lusso di un gelato, ma non prima di aver messo in scena la sua consueta trappola. Aspettava, con lo sguardo di chi sa già come andrà a finire, la vittima predestinata.
 
Fra i più assidui a cascarci eravamo io e il compianto Nino Silvio. Per quanto ci promettessimo ogni volta di non cadere nel tranello, finivamo sempre seduti al tavolino, carte in mano, davanti a una partita di briscola scoperta. In palio, niente di meno che un “Camillino” della Eldorado, quel gelato biscotto che oggi potrebbe ricordare il Maxibon, ma che allora aveva il sapore semplice e irripetibile di un premio di lusso. Ci sedevamo pieni di speranza, convinti che quella volta sarebbe toccato a noi assaporare la dolcezza della vittoria. Ma puntualmente l’illusione si scioglieva come neve al sole. Orlando, con la calma di chi non ha fretta, ci sfilava il gelato di mano ancor prima che potessimo accorgercene. Il suo sorriso compiaciuto era parte integrante del copione: non una smorfia di scherno, ma la soddisfazione di chi aveva saputo, nuovamente, tenere fede alla sua fama di imbattibile. E se, come talvolta accadeva, nello stesso pomeriggio riusciva a vincere due partite, non mangiava entrambi i gelati. No, Orlando era uomo saggio. Conservava il secondo per il giorno dopo, perché in paese non si poteva mai sapere se ci sarebbe stato qualcuno pronto a offrirgli un’altra sfida.
 
Così, tra le risate, le esclamazioni e i racconti che rimbalzavano da un tavolino all’altro, la piazza di Librizzi custodiva anche questi piccoli episodi di vita quotidiana. Gesti semplici, partite di carte, e Orlando che si concedeva il suo “Camillino” gustato lentamente, quasi a sottolineare la differenza tra vincitori e vinti. In fondo, lì c’era tutta l’essenza di un tempo in cui le giornate sembravano più lente e leggere, e la piazza era il centro del mondo. Eppure, in quelle partite perse e in quel suo ironico, bonario sorriso — che pareva dire “vi futtia nautra vota” — non c’era solo il gusto della vittoria, ma qualcosa di più sottile, che teneva insieme gioco, complicità e una sorta di tacita educazione alla sconfitta.
 
 Il pensiero corre inevitabilmente a quei giorni, alle tante sfide, a Nino che “accettava” l’ennesima partita persa senza mai riuscire a soffocare la sua risata nervosa, sarcastica, che risuonava come uno stonatissimo applauso a teatro, fuori tempo ma indimenticabile. Erano attimi che, nel loro ripetersi, finivano per scolpirsi nella memoria, insieme all’alito gelido che si mescolava all’afa pomeridiana e al profumo inconfondibile di zucchero e vaniglia che uscivano dal frigo marchiato “Eldorado”, ogni volta che il barista sollevava il coperchio per estrarne il biscotto gelato destinato a Orlando. E noi, accanto, restavamo a guardare, già pronti a giurare che la prossima partita sarebbe andata diversamente. Ma il bello, forse, stava proprio in questo: non nella vittoria mancata, ma nella consapevolezza del gioco delle parti, che trasformava la briscola in una rappresentazione corale. Ciascuno recitava il proprio ruolo: Orlando lo scaltro che si fingeva inesperto, Nino che inscenava la sua ironica tragedia dopo aver perso, e io che accanto a lui mi univo al lamento finto - drammatico, come a rendere più vera la scena. In fondo — a volte attori, altre spettatori — sapevamo come sarebbe andata, ma ci prestavamo al copione con la serietà di chi, pur ridendo, intuisce che in quei gesti si nascondeva un pezzo autentico della vita.
 
Orlando era questo: barbiere, confidente, pettegolo e goloso. Ma dietro l’ironia, i racconti e quella sua arte di intrattenere, restava pur sempre un uomo di famiglia. La sua golosità andava soddisfatta, sì, ma con i soldi degli altri, perché il gioco, le carte e i “Camillini” erano un lusso che serviva a dare sapore alla vita. Il necessario, invece, era destinato ai suoi: come un buon padre sapeva che il pane non poteva mancare. Era una persona pratica, certo, ma anche narratore inconsapevole di quella quotidianità che oggi sembra molto lontana. Forse è per questo che, ripensandoci, non ricordo tanto i taglietti del rasoio o le mani abili sulla dama, quanto la sua presenza: Orlando come personaggio di paese, cornice e protagonista insieme, uno di quelli che davano senso al palcoscenico collettivo di piazza Catena. E a ben vedere, più che un barbiere, rimane un frammento vivo di storia paesana, rimasto lì, tra l’odore della colonia a buon mercato e il rumore secco delle carte battute sul tavolino del bar.
 
Giuseppe Arlotta
 
26 settembre 2025
 

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