Giuseppe Arlotta torna con la forma racconto dopo il grande successo di letture ottenuto con il racconto sul paese di Librizzi.
Anche se sono passati molti anni seguendo il racconto vedrete che anche tanto tempo fa , gli incontri al buio come capita talvolta ora con le chat virtuali quando si va nel reale, possono sfociare in delusioni.
Nel racconto c'è il protagonista, un suo amico Tino Costantino che nella foto sta proprio alla sua sinistra(Arlotta e' quello cerchiato) e ci sono gli anni 60 in Sicilia; buona lettura!
LE CHAT ANNI 60 - UN INCONTRO AL BUIO
(dal Diario Vitt al Ciocorì Motta: quando la realtà smentiva i sogni e l’amicizia li raccoglieva in silenzio)
Negli anni '60, un incontro al buio tra un ragazzino e una ragazzina nato da uno scambio di biglietti era un'avventura sospesa tra sogno e timidezza. Le parole scritte, immaginate e custodite con cura, accendevano aspettative romantiche e idealizzate. lasciavano però il segno dolce e formativo della prima scoperta dell’altro, lontano dalla fantasia. Era il periodo in cui, nelle scuole medie ancora non c’erano classi miste, ed alla "Giacomo Leopardi" di via Taormina, per mancanza di spazio, le lezioni si svolgevano su due turni - al pomeriggio la mia aula aveva una corrispondente femminile, che prendeva posto nei nostri stessi banchi appena noi uscivamo. Fu proprio quell’adolescenza irrequieta, quella fame di emozioni nuove, a spingermi un giorno a lasciare nel sottobanco un foglietto piegato con su scritto: ”Come ti chiami?” - un gesto semplice, ma carico di trepidazione.
Il mattino dopo essere entrato in classe, nel sistemare libri e quaderni prima di sedermi, ebbi un sobbalzo, c’era una risposta. Un quadratino di quaderno, a righe, con una scrittura rotonda e ordinata: ”Ciao, mi chiamo Maria e tu?” - il cuore cominciò a pulsare forte, quasi a scoppiare. Una tempesta di emozioni mi travolse: stupore, gioia, curiosità e quella sensazione nuova. inspiegabile che non riuscivo a definire, ma che mi toglieva il respiro. Subito corsi da Tino, il mio compagno di classe e di avventure, per confidargli tutto. Lui ascoltò con gli occhi spalancati, poi mi diede una gomitata leggera e sorrise; “allora è fatta! Ma scrivile bene, niente scarabocchi!” Poi mi chiese di vedere il biglietto, lo lesse con aria da investigatore esperto e concluse: “se ti ha risposto vuol dire che è interessata”. Da quel momento iniziò un fitto scambio di bigliettini. A volte erano accompagnati da caramelle Charms alla frutta, a volte da disegnini o piccoli pensieri. L'attesa del giorno dopo diventava spasmodica. Maria occupava ormai ogni angolo del mio cervello. Non pensavo più ai giochi, ai fumetti, alle figurine: solo a lei.
Mi interrogavo continuamente: Chissà com’è? Avrà i capelli biondi? Castani? Rossi e le lentiggini sul viso? Mi troverà simpatico? Le piacerò? E poi la domanda più ardita: Ci baceremo? Fu sempre Tino a darmi il coraggio di proporle un incontro. Un vero appuntamento. Concordammo così, giorno, ora e percorso: all’uscita della scuola, in direzione centro, lei avrebbe svoltato nella prima stradina sulla destra, che portava in località “Maregrosso”. Lì, indisturbati, ci saremmo visti per la prima volta. Nel frattempo, la mia mente volava. Idealizzavo Maria mille volte al giorno. La immaginavo con i capelli raccolti in una coda di cavallo, o con la frangetta, magari con le trecce. La vedevo della mia stessa altezza, delicata, esile ma non troppo, con gli occhi grandi e un sorriso dolce. Ma più di tutto, continuavo a fantasticare sul momento del nostro incontro. Su come comportarmi, cosa dirle, cosa portarle in dono: pensai perfino a dei fiorellini da far essiccare tra le pagine di un libro, come si faceva allora.
Il giorno stabilito arrivò. Mi vestii con una cura quasi ossessiva: “gilerino” blu con la cerniera, camicia giallina, pantaloni lunghi a quadretti — non stretti alle caviglie, naturalmente — un acquisto di mamma ai magazzini Rotino, in viale San Martino. Volevo sembrare grande, ma non troppo; serio, ma non rigido. Esitai a lungo su cosa portare con me per darmi un certo contegno: inizialmente pensai alla cartellina di plastica rossa che regalavano agli abbonati di Topolino (opzione subito scartata perché troppo infantile), poi al libro “Cuore”, temendo però di dare l’impressione di voler recitare la parte di Enrico Bottini, o peggio ancora di Ernesto Derossi, con tutto il loro candore affettato, alla fine scelsi il “Diario Vitt”, molto in voga tra gli adolescenti dell’epoca: sobrio, scolastico, vagamente adulto. In tasca infilai una tavoletta di Ciocorì Motta, piccolo conforto da battaglia, e, per completare il tutto, mi spruzzai generose dosi del dopobarba di papà sul viso ancora imberbe. Un gesto inutile, forse, ma allora mi sembrava il sigillo di un rito di passaggio.
Accompagnato da Tino - che mai e poi mai, si sarebbe perso quell’evento - avevo percorso la strada verso il luogo dell’appuntamento, contavo i passi, osservavo i dettagli che mai avevo notato prima: L'insegna dell’osteria ( a putia du vinu ) all’angolo, un venditore ambulante con la voce roca, le mattonelle scomposte del marciapiede , alcuni fogli della Gazzetta del Sud sporchi di vernice rossa all’ingresso di una carrozzeria auto - cercando, nello stesso tempo, di prestare attenzione alle parole del mio amico che mi suggeriva come comportarmi. Così mezz’ora prima dell’uscita da scuola, con Tino ci appostammo all’angolo tra via Oreto e via Taormina - E quasi nascosti dietro un’auto aspettammo. Quando quasi tutti erano usciti dal cancello della scuola ed ormai mi ero convinto che avesse cambiato idea, eccola arrivare, si, lei, la mia Maria. Seguii il suo passo e come da amorosi accordi, la vidi svoltare proprio nella stradina in cui doveva avvenire l’incontro. Ma bastò un attimo, un solo attimo, per sentire il mondo franarmi addosso: la fissai, cercando disperatamente di ritrovare in quel volto l’ideale costruito nei miei pensieri. Ma non c’era nulla. Né magia, né incanto. Solo la realtà, che arrivava senza chiedere il permesso, dura e disadorna.
Era alta, almeno dieci centimetri più di me, i capelli ricci ed arruffati alla Lucio Battisti, con una corporatura decisamente imponente. Tutto quello che avevo costruito nella mente, ogni fantasia, ogni sogno, si frantumò in quell'istante. Era come se il castello di carta che avevo edificato con cura, giorno dopo giorno, fosse stato spazzato via da una folata di vento improvvisa. Non c'era nulla di oggettivamente brutto in lei, niente che potesse giustificare un rifiuto — ma il suo volto, i suoi gesti, perfino il modo con cui camminava, tutto era estraneo all’immagine che avevo dipinto nella mente, e che ormai credevo vera.
Non fui capace di affrontarla. Non trovai le parole, non trovai il coraggio. Istintivamente, mi girai sui tacchi e mi allontanai in silenzio, con Tino al fianco che mi guardava, forse perplesso, forse compassionevole ma rispettoso del mio non voler parlare. Camminai come in trance, come se stessi scappando da un errore che avevo commesso senza rendermene conto. Ripercorsi all’indietro via Oreto con il cuore pesante, pieno di domande e di delusione. I rumori della strada mi sembravano ovattati, lontani., le voci dei passanti, i clacson delle auto: tutto mi scivolava accanto senza toccarmi. Mi sembrava assurdo che il mondo continuasse a girare come nulla fosse, mentre dentro di me qualcosa si era incrinato. Appena arrivati vicino casa, salutai Tino con un filo di voce e varcare la soglia del portone d’ingresso fu come tirare il fiato dopo una lunga apnea: mi aspettava la mia stanzetta, il mio rifugio, il solo posto in cui poter restare da solo con i miei pensieri, e provare a dare un senso al disordine creato da ciò che era appena accaduto.
Nei giorni successivi ,la mia poca loquacità rimase inalterata ma. dentro me stesso, non facevo altro che ripensare a quei bigliettini, a quelle frasi scritte con inchiostro blu. ai piccoli cuori tracciati con timidezza, ai versi copiati da canzoni di Mina o Gianni Morandi. Mi chiedevo come avessi potuto dare tanto peso a quelle parole, come avessi potuto confondere l'immaginazione con la realtà. Ero stato io a inventarla, a vestirla dei miei sogni, a farne il simbolo di qualcosa che forse non aveva nulla a che vedere con lei.
Fortunatamente, accanto a me c’era Tino, compagno di classe, di giochi, di risate e di sogni a metà. Con lui avrei condiviso ancora un anno, prima che la mia famiglia si trasferisse a Librizzi. Non disse nulla quel pomeriggio, e fu proprio quel silenzio a farmi capire quanto mi fosse amico. Non servivano parole: bastava la sua presenza. Bastava il modo in cui, già il mattino dopo, arrivò con un pacchetto di figurine da scambiare, come se nulla fosse successo, ma con uno sguardo complice che diceva tutto. Così per un periodo più o meno lungo, continuò ad inventare nuove storie, nuove avventure, nuovi pretesti per farci ridere. Mi propose sfide improbabili con i tappi metallici delle bibite (le nostre biglie), partite di calcio improvvisate nel campetto sterrato di fronte casa , missioni segrete tra le vie del quartiere. Faceva in modo che non ci fosse tempo per pensare, ma soprattutto, faceva in modo che non mi sentissi solo.
Il dolore c’era ancora, sì — ma aveva cambiato sapore. Non era più la ferita bruciante della delusione, ma qualcosa di più tenue, che si scioglieva piano piano dentro la certezza di non essere solo. Avevo capito che esiste un valore che non pretende niente, non delude e non ha bisogno di essere immaginato diverso da com’è: l’amicizia vera. Quella che sa aspettare, che non giudica, che si siede accanto a te anche nel silenzio, perché sa che a volte è proprio nel silenzio che si cura il cuore. Solo con il tempo, lentamente, ritrovai l’equilibrio e tornai alla mia vita di sempre, fatta di partite di pallone, scherzi e fantasiose avventure. Ma non fu più la stessa. Qualcosa, dentro, era cambiato. Avevo scoperto — senza capirlo fino in fondo — che le illusioni, quando si spezzano, lasciano dietro di sé non solo malessere, ma anche consapevolezza. E quella prima delusione d’amore, dolceamara e indimenticabile, divenne un ricordo tra i più veri della mia adolescenza. Un piccolo naufragio, forse, ma anche la prima lezione su quanto possa essere fragile ciò che costruiamo con l’immaginazione.
Quando poi venne il tempo di partire, e lasciare quella scuola, quelle strade, quel banco con i bigliettini nascosti e i pomeriggi d’attesa, sapevo che qualcosa di me sarebbe rimasto lì. Ma avevo appreso, anche, che l’infanzia, quella vera, quella fatta di emozioni assolute e amicizie indissolubili, non mi era stata tolta. Aveva solo cambiato forma. E così, il ricordo di Maria si fece sempre più lieve, come una vecchia canzone alla radio. Ma Tino no. Lui rimase, nei pensieri e nei racconti, in quel posto speciale dove si custodiscono le cose più importanti. Perché certi amici non passano. Restano. E ti insegnano, senza saperlo, che anche quando i sogni si spezzano, c’è sempre qualcuno disposto a camminare con te tra i loro frammenti, fino a farti ritrovare il sorriso.
Giuseppe Arlotta
25 luglio 2025
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