lunedì 9 giugno 2025

GIUSEPPE ARLOTTA: L' ILLUSIONE DELLA FELICITA' - ( PARTE PRIMA ), Ignorare necesse est




L’ILLUSIONE DELLA FELICITA’ - (PARTE PRIMA)   Ignorare necesse est
 
Si sente spesso dire che chi sa poco vive più felice. Ma cosa significa davvero “vivere felici”? È forse sufficiente non avere preoccupazioni immediate, coltivare amicizie fondate sull’affinità superficiale del costume più che sulla profondità del pensiero, circondarsi di una famiglia che si educa più per abitudine che per consapevolezza, per potersi dire pienamente realizzati? In effetti, in una società sempre più orientata al consumo e all’apparenza, sembra che per molti basti poco: un lavoro che dia uno stipendio per sopravvivere, l’apericena del sabato sera, uno smartphone per rimanere connessi a un flusso infinito di banalità e indignazioni a comando. Ed è proprio in questo contesto, che lo spirito critico diventa quasi un fardello, qualcosa di scomodo. Approfondire, leggere, riflettere: tutte attività considerate inutili, se non addirittura fastidiose.
 
Ma dietro questa illusoria serenità si nasconde una fragilità difficile a vedersi. L’assenza di un’adeguata istruzione e la rinuncia consapevole allo studio, rendono le persone più esposte al condizionamento, più pronte ad accettare verità preconfezionate ed a credere agli imbonitori che imperversano i media e il web, vendendo certezze semplici a un prezzo altissimo: la rinuncia al pensiero personale. Il sapere, invece, non è un lusso, è una necessità. Non basta crescere dei figli: occorre educarli, fornire loro gli strumenti per leggere criticamente la realtà, per distinguere il vero dal falso, il valore dall’apparenza - e questo non si improvvisa. Si costruisce giorno dopo giorno, con la fatica dell’apprendimento, con la riflessione, con il confronto. Le letture non sono optionals, lo studio, anche quando non porta guadagni immediati, è una forma di investimento etico, civile e spirituale.
 
C’è chi si vanta di aver abbandonato la scuola per “iniziare a guadagnare”. Ma a quale prezzo? Quello di una visione della vita ridotta alla sopravvivenza animale: cibarsi, accoppiarsi, riprodursi. Nulla di male nei bisogni primari, ma se ci si ferma lì, si perde la parte più alta dell’umano: la capacità di dare un senso a ciò che si vive, di relazionarsi in modo sincero e coinvolto, di tramandare valori, di generare bellezza. Anche i gesti quotidiani, svuotati del loro senso più profondo, si riducono a meri automatismi. Le azioni che un tempo portavano con sé un valore simbolico o una dimensione interiore, oggi si compiono per inerzia, senza interrogarsi sul loro significato. Così si perde l’occasione di fare esperienza del mondo in modo autentico: si vive in superficie, narcotizzati da ritmi imposti, da gesti ripetuti, da una normalità che rassicura ma non nutre. In questa deriva, l’individuo smette di essere soggetto per diventare funzione.
 
Questa tendenza comporta dei rischi concreti, perché un popolo che ignora, è un popolo manipolabile. Chi non si interroga vive forse più leggero, ma anche più inconsapevole - e senza consapevolezza non c’è vera felicità, ma solo una sua imitazione grossolana, fatta di abitudini, anestesia del pensiero e conformismo. La felicità autentica richiede fatica, profondità e coraggio, si, il coraggio di non accontentarsi, di cercare, di dubitare. E soprattutto, di educare alla libertà e alla responsabilità, due condizioni che solo la conoscenza può realmente garantire.
 
Giuseppe Arlotta
 
8 maggio 2025

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