DALLA LIBRERIA MONGIANO AL CIMITERO DI SAN MICHELE IN VENEZIA
(storia di un regalo di Natale scartato con quattro anni di ritardo)
Alla fine degli anni ’80, la libreria di Giovanni Mongiano si affacciava discreta ma tenace su via Tino Dappiano, proprio di fronte all’ufficio postale di Crescentino. Un’insegna sobria, una vetrina sempre curata con attenzione quasi affettuosa — dove i libri sembravano sistemati con la premura di chi prepara un altare — e dentro quell’odore inconfondibile della carta e quell’aria ovattata che solo le librerie vere, non i megastore editoriali, sanno conservare. Per me, come per molti altri del paese, quel luogo era più di un punto vendita: era un rifugio, un piccolo tempio laico del sapere, dove si poteva entrare anche solo per annusare i titoli, sfogliare con rispetto o scambiare due parole con chi di libri viveva davvero.
Ricordo ancora con precisione il gesto con cui spingevo la porta di vetro, come se quell’attimo aprisse una soglia verso un altro tempo, lontano dalla vita di tutti i giorni. Entravo spesso senza un’idea precisa, solo con la speranza di trovare qualcosa che mi chiamasse. Qualche volta chiedevo se la Garzanti avesse pubblicato un nuovo libro di Jorge Amado: dopo aver letto”Dona Flor e i suoi due mariti”, avevo deciso che niente mi avrebbe impedito di raccogliere l’intera opera di quell’autore brasiliano, che mescolava sensualità, umorismo popolare e malinconie tropicali in un modo che sentivo quasi fisicamente vicino, pur non avendo mai messo piede a Bahia.
Un giorno, dopo l’ennesimo sopralluogo alla vetrina, decisi di entrare, non tanto per la gioia sottile di curiosare, come solitamente facevo, quanto per acquistare”I beati anni del castigo” di Fleur Jaeggy (coautrice di molti testi di Franco Battiato). Giovanni, con la sua calma gentile, mi accolse con il solito sorriso ironico e l’occhio attento. Parlammo per un po’ di novità editoriali, di ciò che mancava sugli scaffali e di quello che invece si riproponeva ciclicamente, come un disco troppo amato per essere accantonato. Quando stavo per andar via con il romanzo appena comprato, senza alcun preavviso, mi porse un piccolo omaggio: tre audiocassette, intitolate ”Le voci originali dei grandi autori”, confezionate con la grafica accurata degli Oscar Mondadori, destinate ai lettori affezionati. “Tienile,” disse con tono complice, “sono appena arrivate. C’è roba buona dentro.”
Appena tornato a casa, non riuscii a resistere alla curiosità. Inserii la prima cassetta nello stereo, e da quel momento le parole dei grandi iniziarono a riempire la stanza: D’Annunzio, Pirandello, Hesse, Quasimodo, Tolstoj, Chiara, Mann, Montale… e poi, all’improvviso, ”With usura” . La voce era quella, inconfondibile, di Ezra Pound, roca e intensa come pietra scheggiata. E io, ascoltando quelle parole, ebbi l’impressione netta che qualcosa si fosse incrinato, o forse risvegliato, dentro di me.
Fu così che quei tre piccoli oggetti, ricevuti quasi per caso nella libreria di via Dappiano, finirono per diventare una compagnia costante, un rifugio segreto nei giorni incerti. In particolare, la voce di Pound, spezzata eppure solenne, entrava nel mio studio come un’eco lontana, e io mi sorprendevo a pensare che ciò non accadesse per caso. Non erano soltanto versi: erano un monito, un invito a riconoscere nelle cose la misura della bellezza e il suo contrario, a vigilare contro quel guasto sottile che corrompe l’arte, il lavoro, perfino il pane arido delle sue immagini, ciò che avrebbe dovuto dare forza e sostentamento si riduceva a un’ombra di sé. Un richiamo a non lasciare che il mondo e l’uomo fossero ridotti a scheletri di ciò che avrebbero potuto essere.
Forse fu anche per questo ripetuto ascolto che, anni dopo, senza che lo avessi davvero deciso, mi ritrovai a seguire il filo invisibile che da allora mi legava a lui, fino a Venezia, fino all’isola di San Michele, davanti alla sua tomba; come se quell’incontro fosse stato scritto nel momento stesso in cui Giovanni Mongiano — che sembrava proiettato verso un tempo diverso e che dal silenzio dei libri sarebbe passato con naturalezza alla luce del palcoscenico — mi aveva donato le cassette. E in quella metamorfosi, in quel lento scivolare dalle pagine stampate alla scena, mi piaceva immaginare che un giorno avrebbe dato corpo a quella voce, restituendo Pound alla vita davanti a un pubblico, così come un tempo ne aveva custodito l’ombra tra gli scaffali.
Era il 1993 quando, una mattina – piovigginosa e grigia – di fine novembre, arrivai alla stazione di Santa Lucia a Venezia. In quegli anni lavoravo come messaggere postale sui treni in partenza da Torino Porta Nuova: la mia tratta abituale era la Torino–Bari. Si partiva alle 21 e si rientrava alle 5 del mattino di due giorni dopo.
Notti lunghe, scandite dal rumore metallico dei vagoni, dall’odore stagnante dei sacchi della posta accatastati come corpi in attesa, dal senso di un tempo dilatato che appartiene solo a chi lavora mentre gli altri dormono. Così, quando l’orarista mi telefonava per chiedere se fossi disponibile a sostituire un collega assente, accettavo volentieri. Era un lavoro che, al di là del buon trattamento economico, garantiva ampi margini di indipendenza e la possibilità di visitare luoghi che per altri richiedevano viaggi programmati, prenotazioni, spese. Non di rado le destinazioni includevano città come Roma, Bologna, Milano e, quel giorno, Venezia.
Varcata l’uscita della stazione, come oltre una soglia non dichiarata, il mondo dei binari e delle pensiline rimase alle mie spalle e la città mi si aprì davanti. La laguna appariva velata di nebbia; i canali si allungavano davanti a me come nastri di raso, nei quali si rifletteva un cielo grigio e basso. Una pioggia leggera disegnava cerchi concentrici sull’acqua e rendeva la città più silenziosa, come trattenuta. I primi turisti si affrettavano sotto gli ombrelli colorati, i ponti brillavano di pietra bagnata, le calli odoravano di umido e di salsedine, restituendo echi di passi veloci, diversi dai miei, ancora abituati ai corridoi del vagone postale. Eppure, con ogni goccia che cadeva, percepivo più nitidamente la distanza tra il frastuono dei treni e il silenzio che stavo per abbracciare, e finalmente respiravo un’aria diversa da quella viziata dei vagoni ferroviari.
Sentivo il bisogno di allontanarmi dal brusio delle voci, di cercare un luogo dove le parole potessero tornare a pesare.
Avevo una meta precisa, e nulla poteva distrarmi: l’isola di San Michele, il cimitero di Venezia. Non sapevo bene cosa aspettarmi, ma avvertivo che quel giorno sarebbe accaduto qualcosa di importante. Decisi allora di dirigermi verso l’imbarcadero, lasciandomi dietro i primi rumori di una città che iniziava lentamente a destarsi.
Il vaporetto mi lasciò davanti al rosso vivo dei muri di cinta, segnati dall’usura del tempo. Appena varcato l’ingresso, la città dei vivi scomparve, sostituita da un regno di silenzio. Prevalevano i cipressi, con le loro chiome scure, dritte come sentinelle, e fra essi le tombe raccontavano destini diversi: alcune ordinate, con segni di cura recente, altre, invece, si ripetevano in uno stesso identico stato di decadenza, con lapidi consumate, fiori secchi lasciati dai visitatori, croci annerite dall’umidità. C’era in tutto questo un senso di quiete, ma anche una malinconia che non pesava, piuttosto avvolgeva come un velo.
Ricordo ancora, camminando lungo i viali silenziosi, di aver seguito le indicazioni per raggiungere la parte protestante del cimitero. Qui, tra pietre dimenticate e angoli meno visitati, sapevo di trovare ciò che cercavo. Udivo lo scroscio dell’acqua sotto le scarpe sul selciato, la pioggerellina ticchettava lieve sulle foglie, e il colore dei mattoni faceva da cornice a quella solitudine. Poi la vidi: una tomba semplice, quasi anonima. Una lastra rettangolare di granito, senza orpelli, con inciso soltanto il suo nome: Ezra Pound.
Quasi esitante, e dopo un primo momento in cui l’emozione imponeva una pausa, mi posizionai in piedi davanti a quel sepolcro importante, con la sensazione netta che ogni movimento e ogni respiro dovessero accordarsi alla dignità del luogo. Fu allora, quasi seguendo un copione già scritto da tempo, che estrassi dalla tasca il walkman: un piccolo reliquiario di plastica che custodiva una voce lontana. Indossai gli auricolari e, chinando leggermente il capo come si fa innanzi a qualcosa che non si vuole profanare, premetti il tasto “play”. La voce esplose nelle cuffie, ruvida, arcaica: “With Usura”… Non sembrava provenire dal nastro, ma filtrare dal terreno, risalire dalle radici dei cipressi, farsi strada tra i marmi e l’assenza di rumori. In quell’istante ebbi la sensazione impossibile che Pound recitasse quei versi proprio lì, in quella mattina grigia, come se fossimo davvero uno di fronte all’altro.
Ogni verso, allora, si levava come un monito antico: “Con usura nessuno ha una solida casa di pietra squadrata e liscia…”. E le mura di San Michele, umide e segnate dagli anni e dai venti, rispondevano come se conoscessero da sempre quelle parole. Mi scorrevano nella mente immagini che non avevo mai visto ma che mi appartenevano: chiese mai affrescate, pane che non sfama, pittori piegati dalla necessità. L’usura si rivelava per ciò che era davvero: non il calcolo del denaro, ma un principio di disgregazione, una malattia che “arrugginisce il cesello”, che “tarla la tela”, che prosciuga la vita prima ancora che abbia forma. “Contro natura”, ripeteva la sua voce, e quelle sillabe scendevano pesanti sul selciato bagnato come un rituale antico che si rinnova. In quel momento compresi che Pound non aveva scritto un poema economico, ma una condanna universale, un lamento cosmico per la perdita dell’ordine e della bellezza. Contro una peste che trasformava tutto in merce.
E in quell’ascolto, all’improvviso, mi tornarono alla memoria gli anni della giovinezza. Non singoli episodi, non frasi isolate, ma un coro indistinto, un fervore corale. Scorrevano così le lezioni politiche di Melino, i monologhi del professor Allitto su Gurdjieff, o il performare di un brano tratto dal ”Così parlò Zarathustra” che Ico e Silvano eseguivano con un’intensità quasi rituale. Non importava chi parlasse o chi ascoltasse: era un canto collettivo, una sete di assoluto che accomunava e faceva sentire parte di una stessa, inesauribile passione.
Rivedevo i pomeriggi trascorsi con gli amici in stanze fumose, un bicchiere di vino economico in mano e una copia sgualcita dei ” Cantos” al centro del tavolo: eravamo giovani e ingenui, ma convinti che la poesia fosse un’arma. Sento ancora oggi il fermento di quelle voci: qualcuno batteva il pugno sul legno, qualcun altro leggeva a voce alta, e noi annuivamo, certi che quelle parole non fossero solo letteratura, ma una chiamata. Erano discussioni interminabili, tese tra riflessione e ribellione, tra l’amore per la bellezza e la rabbia per un mondo che ci appariva già corrotto. Le frasi si inseguivano, si accavallavano, rimbalzavano da una voce all’altra, fondendosi in un unico flusso che ci trascinava.
In quel clamore lontano riconoscevo lo stesso ritmo che in quel momento ascoltavo nelle parole di Pound, lo stesso battito che, davanti alla sua tomba, sembrava ritornare a vivere.
Il tempo passò senza che me ne accorgessi. Quando spensi il walkman, il silenzio tornò a farsi compatto, ma non era più lo stesso: era abitato dalle parole che avevo appena udito, come se si fossero intrecciate con l’aria, con la pioggia, con i cipressi stessi. Mi alzai lentamente; dopo aver rivolto un ultimo sguardo, mi voltai per andare via. Non deposi fiori, non scrissi biglietti. Solo quell’ultima fuggevole occhiata, e un ringraziamento muto.
Lasciai il cimitero con passo raccolto, mentre la mattinata continuava sotto una pioggia sottile che pareva voler sigillare ogni cosa in una cortina d’argento. Pensavo ai miei compagni di lavoro, al loro parlare fitto, al loro mondo semplice e concreto, magari intenti ad ascoltare Franco Famà e la sua chitarra, che trasformava ogni pausa in un momento di lieve armonia condivisa. Io, invece, mi scoprivo distante, come se avessi oltrepassato il confine del tempo e della memoria, portavo con me un’altra eco: l’essere stato davanti alla tomba di un uomo che — come scrisse Pier Paolo Pasolini — “ha attraversato l’arte e la politica come un colosso ferito”.
Raggiunsi l’imbarcadero quasi senza accorgermene. Salendo sul battello, sentii che qualcosa dentro di me si era assestato,quasi un tassello tornato al proprio posto dopo anni di silenziosa assenza. Il motore cominciò a vibrare, la laguna a scorrere lenta ai lati, increspata da quella pioggerella ostinata che rendeva tutto più interiore. Ogni movimento dell’acqua, ogni piccolo spruzzo contro lo scafo, risuonava come un invito a rallentare, a lasciare che il tempo riprendesse il suo peso naturale. Non avevo compiuto un gesto qualunque: era stato un percorso inusuale ma decisivo. Avevo ritrovato un filo che riconduceva ai miei vent’anni, alle letture febbrili, alla fede assoluta in quella poesia che era riaffiorata in un giorno di pioggia a distanza di così tanto tempo.
Mentre il vaporetto avanzava verso Venezia, la città prendeva forma davanti a me: prima un’ombra, poi un disegno più netto, infine un organismo vivo che si animava tra il fluire della gente e le prime botteghe che aprivano le loro imposte. Non era un brulicare: era un lieve pulsare, un movimento discreto, quasi timido, come se la città stessa si fosse svegliata sotto il peso dell’umidità. Tra le calli comparivano i primi addobbi natalizi, piccole luci esitanti, fili d’oro che tremavano nell’aria bagnata. E proprio in quell’istante pensai che, senza volerlo, Giovanni Mongiano — il libraio diventato attore — mi aveva consegnato con anni d’anticipo un dono per quel Natale che si avvicinava.
Quel giorno avevo finalmente aperto il regalo: come se, idealmente, con lentezza e necessità avessi sciolto prima il fiocco e poi rimosso, una a una, le pieghe della carta che lo aveva protetto per così tanti anni, fino a raggiungerne il nucleo più intimo.
E dentro quell’involucro immaginario non c’era un oggetto, ma una presenza che mi accompagnava da tempo: la voce di Pound, come un lume discreto, la sua parola antica che continuava a esigere fedeltà, la sua ombra che sembrava ancora attraversare le coscienze come un viandante inquieto. Fu allora che compresi come quel momento, vissuto in silenzio all’interno di un cimitero, non fosse destinato a consumarsi lì, ma a restare acceso ben oltre quel novembre piovoso del 1993, come una brace nascosta capace di attraversare gli anni senza spegnersi.
Giuseppe Arlotta
17 dicembre 2025
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