sabato 25 luglio 2015

3 ARTICOLI SULLA MAGISTRATURA ITALIANA, A CURA DI MAURIZIO D'ANGELO

Cari lettori, vi propongo 3 articoli su un tema che mi sta particolarmente a cuore, come avrete oramai capito tutti, e cioè la Magistratura italiana, una delle piaghe più deleterie che l’Italia repubblicana abbia mai avuto, assieme alla politica e purtroppo, mi dispiace dirlo ma lo constato ogni giorno sempre di più, alla gente comune.
Nell’ultimo articolo vedrete che, nonostante abbia già espresso il mio giudizio negativo sul governatore Crocetta, sono assolutamente contro intercettazioni arbitrarie e perdipiù non confermate. Le persone vanno giudicate per quello che hanno o non hanno fatto. Punto.


1 - Contro i finti paladini della legalità
Noi imprenditori e la gogna giudiziaria. J’accuse
di un giovane industriale
di Marco Gay – “Il Foglio” (Marco Gay è presidente dei Giovani imprenditori Confindustria)

"La domanda vera non è se esista la legalità nel nostro paese, ma se esista una legalità del fare bene le cose".
L’etichetta “legalità” in Italia viene usata spesso per coprire quello che in
realtà con il rispetto delle regole ha poco a che fare: intercettazioni
che dalle procure “si materializzano” nelle redazioni dei giornali,
processi nei talk-show in parallelo o addirittura in anticipo a quelli
nelle aule dei tribunali, avvisi di garanzia che da istituti a tutela
dell’indagato diventano detonatori di gogne mediatiche. La stessa
etichetta, piena di superficialità, viene usata da chi non ha voglia o
capacità di comprendere quanto avviene nel mondo reale.
A cosa serve questa concezione di legalità? A nulla. Non serve ai tanti
magistrati che lavorano con molta serietà e poche interviste. Non serve a
punire chi è effettivamente colpevole, perché il rito espiatorio di
qualche giorno di custodia cautelare, cui segue la solita prescrizione,
non fungerà mai da vero deterrente. Soprattutto non serve all’Italia,
perché la via giudiziaria alle Mani pulite avrà  cambiato il nome di
qualche partito e di qualche consiglio di amministrazione, ma non ci ha
restituito un paese normale.

Anzi, è servita solo a far diventare ancora di più il nostro, il paese della “inazione”, delle opere finanziate e mai cantierate, di una Pubblica amministrazione dove le carte passano da un piano all’altro senza che nessuno si prenda la responsabilità di decidere, e dove gli investimenti sono paralizzati da vicende allucinanti come quella di Monfalcone, non a caso, emblematicamente, un “blocco”. Un’ordinanza della procura ferma un’azienda, Fincantieri, con ordini per quasi 2 miliardi di euro, togliendo lavoro a 4.500 persone, colpendo un indotto industriale e industrioso. Non per evitare disastri ambientali, non per scongiurare pericoli alla salute pubblica o alla sicurezza degli operai e nemmeno per impedire truffe (motivazioni sacrosante), ma per una interpretazione cavillosa della normativa, che non tiene conto di aspetti semplici e banali come il ciclo di
trattazione dei rifiuti che non può avvenire a bordo delle navi.

Quello di Monfalcone e delle tante piccole e medie imprese
alle prese con i tribunali, è un paese dove tutti potranno credersi
assolti (o meglio neanche “rinviati a giudizio” per rimanere in tema),
ma dove sono invece pur sempre tutti coinvolti (o “imputati”) per aver
fatto diventare l’Italia più lenta, più fiacca, più debole. Perché, come
diceva don Milani: “A cosa serve avere le mani pulite se poi le si
tengono in tasca?”.I giudici che hanno bloccato Monfalcone, hanno
valutato l’impatto delle loro decisioni? E gli imprenditori onesti – che
sono la maggioranza (su questo punto avrei qualcosa da obiettare…ndr), ma non la totalità, come in ogni categoria umana – che provano a mandare avanti le proprie aziende in mezzo a una giungla di leggi e di adempimenti tali che è più conveniente assumere legali e commercialisti che bravi dipendenti, sono eroi o persone che vorrebbero semplicemente fare il proprio mestiere?

Perché la domanda vera non è se esista la legalità nel nostro paese, ma se esista una legalità del fare bene le cose. Come ha sottolineato il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, se le decisioni di un giudice possono produrre conseguenze sistemiche (come nel caso di Monfalcone paralizzare l’apparato produttivo di una intera regione), il giudice non può
limitarsi semplicemente a comunicare “norma e fatto” in un sillogismo
aristotelico, ma deve saper tenere conto degli effetti economici del
proprio rendere giustizia. Una necessità che assume ancora maggiore
valore dopo la sentenza della Corte costituzionale che nel 2013 si è
pronunciata sull’Ilva, stabilendo che non esiste una sovraordinazione
dei diritti, ma una loro necessaria contemperazione. Insomma, anche se
qualche giudice sembra non volerlo capire, nella Costituzione italiana
le imprese non sono ospiti da invitare al tavolo e poi sbattere fuori
dalla porta a piacimento, sono protagonisti attivi che creano benessere e
lavoro.

Saper valutare le ricadute sui livelli occupazionali, sugli andamenti produttivi e sulla manutenzione degli impianti quando si
sequestra uno stabilimento; saper valutare la sostenibilità della
cancellazione dei crediti ai fornitori quando si omologa un concordato
preventivo; saper valutare se la confisca di una azienda infiltrata
dalla mafia sia una occasione di ripartenza industriale pulita per un
territorio o la fine di ogni prospettiva di lavoro normale per gli
addetti non collusi: questo è quello che dovrebbero saper fare i giudici
di un paese industriale e moderno. Questo è quello che noi imprenditori
ci aspettiamo quando vengono prese decisioni sulla pelle delle nostre
aziende. Per farlo, servono giudici specializzati: nozioni di diritto,
ma anche aziendali. L’idea proposta dal ministro Orlando di sostituire
l’accoppiata giudice-consulente con una figura terza, laica che metta
insieme proprio la sensibilità giuridica con quella imprenditoriale,
potrebbe essere uno spunto interessante, così come la volontà di
accrescere sempre più le sezioni specializzate per le imprese.

Se vogliamo una legalità effettiva, non da talk-show, l’economia deve
entrare nella cultura giuridica. E in quella politica. Perché esiste una
stretta interconnessione tra le esigenze dell’economia, le regole che
la governano e le modalità di azione della giustizia. Le vicende di
Mafia Capitale, ma anche di Mose, Tav, Expo e tutti i casi di
corruzione, sottrazione di risorse pubbliche e appalti truccati, non si
fermano con il pugno duro dello sceriffo, perché se anche il colpevole
di turno viene fermato e va in galera, resta un sottobosco fertile di
collusi e intrallazzi. L’unico modo per sradicarlo è rimuovere gli
incentivi a perpetrare i comportamenti criminosi, altrimenti ci sarà
sempre qualcuno pronto a raccogliere il testimone.

Gare al ribasso senza soglia, affidamenti diretti, procedure di emergenza,
subappaltatori sconosciuti, varianti in corso d’opera, 32 mila stazioni
appaltanti, la morte dei costi standard, le procedure di nomina politica
 nelle Asl: ecco alcuni “incentivi” da rimuovere. Vanno costruiti
anticorpi economici e sociali. E va sostenuto chi ci prova. L’accordo
triennale sugli appalti firmato pochi giorni fa a Bologna che
sostituisce le gare al massimo ribasso con la valorizzazione delle
imprese sane che danno lavoro al territorio. Il 60 per cento in più di
aziende che hanno richiesto il rating di legalità nell’ultimo anno.
Perché se la legalità è un valore economico, la legalità ha anche un
valore economico. Ce lo dimostrano i tanti imprenditori onesti, che
vivono la legalità come una dimensione su cui fondare il proprio lavoro,
vittime della concorrenza sleale di coloro per cui è solo un costo di
cui sbarazzarsi. La legalità, soprattutto, è un valore civile, sostenuto
dalle tante persone perbene che nel rispetto di regole certe vivono e
costruiscono, in questo paese, la propria dimensione civile e sociale.


2 - Perché è il caso di scuotere più forte il sistema giudiziario
Il ministro Orlando vuole dei tribunali a misura di investitori, ma velocizzare i processi civili è solo l’inizio
di Alberto Brambilla – “Il Foglio”

Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha tenuto una conferenza
alla Law Society di Londra per dimostrare a legali di banche d’affari e
fondi di investimento la volontà del governo italiano di migliorare un
ingolfato sistema giudiziario con l’ottica di preservare gli
investimenti esteri. “Sappiamo che chi entra in contatto con un sistema
come quello italiano può essere spaventato e spinto a scappare”, ha
detto al Financial Times in un’intervista che ha preceduto la visita al
suo omologo inglese Michael Gove. “Ma possono stare tranquilli, ci sono
tribunali che possono assicurare tempi più rapidi della media” grazie a
una “corsia preferenziale” per le aziende internazionali. Il governo
Renzi, come a inizio legislatura, torna a mostrare l’intento di
aggredire i bizantinismi del sistema giudiziario che, assieme
all’incertezza fiscale, da tempo rendono l’Italia un paese inospitale
agli occhi degli investitori.

Secondo la Banca mondiale è più difficile fare rispettare un contratto in Italia che in altri 100 paesi, tra cui Haiti. Nel 2013, il fatto di non vedere tutelata la protezione del suo know how ha trattenuto Alps South, società biomedica americana, dall’aprire uno stabilimento da 400 addetti in Italia; ha preferito l’Est Europa. Oggi Terravision, compagnia di autobus attiva in Italia da un decennio, sostiene serva più della “buona volontà”. Il
malfunzionamento della giustizia civile costa in termini operativi un
punto di pil all’anno, secondo Banca d’Italia, ma il costo è
imponderabile in termini di occasioni d’investimento sfumate.
Sul regno onirico della giustizia Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, aveva detto che una misura decisiva per creare crescita e lavoro è aggredire i problemi della giustizia. Una disputa civile richiede in media quasi otto anni per arrivare a una soluzione, circa il quadruplo rispetto alla media dei paesi Ocse e otto volte in più della Svizzera. La riduzione a tre anni dei tempi di risoluzione – obiettivo suggerito al Financial Times da Francesco Mannino, presidente della terza sezione civile del Tribunale di Roma – è un passo avanti rispetto ai bassi standard generali ma è comunque un tempo eccessivo rispetto alle performance dei tribunali per l’impresa più efficienti all’estero.

Infatti per un’impresa moderna, le cui strategie d’investimento dipendono anche dalla risoluzione di una disputa, tre anni sono il doppio rispetto, ad esempio, all’ottimo raggiunto in Gran Bretagna e Germania dove una causa civile viene portata a termine in un anno e mezzo. Il presidente del Tribunale di Torino, Mario Barbuto, stimato magistrato, un decennio fa aveva più che dimezzato la lunghezza media delle cause civili, portandole appunto a tre anni, attraverso tecniche manageriali semplici adottate nel suo tribunale. Tuttavia anche gli studi di Barbuto, chiamato da Orlando a
capo del Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, evidenziano che
ridurre i tempi medi di risoluzione è necessario ma non sufficiente per
spingere un investitore a correre il rischio di dovere intraprendere una
 causa in Italia.

Il governo Renzi oltre a volere velocizzare i processi
s’è concentrato sulla decongestione dei tribunali scoraggiando le liti
temerarie attraverso la prevenzione dei conflitti legali, favorendo
soluzioni extragiudiziali mediante l’aumento della tassazione per
l’apertura di un contenzioso e l’aumento delle spese legali a carico del
soccombente (azione già iniziata ad onor del vero con primi anni del governo Berlusconi – ndr). Tuttavia servirebbero altre soluzioni pratiche per recuperare prestigio agli occhi degli investitori esteri, dice al Foglio
 Gabriele Cuonzo, legale dello studio Trevisan & Cuonzo di Milano
che cura gli interessi di multinazionali estere di farmaceutica,
elettronica, automotive e di altri settori. “Il governo ha ottime
intenzioni, l’approccio è positivo soprattutto se, come dice il ministro
 Orlando, si vuole aprire una corsia preferenziale per le aziende
internazionali; i nostri clienti lo chiedono da tempo. Ma bisogna capire
come farlo in concreto e per ora non vedo cambiamenti sostanziali per
quel che riguarda la qualità dei processi”.

Secondo Cuonzo la velocità è infatti solo una parte del problema. “Non vorrei essere operato da un chirurgo rapido, ma da un chirurgo molto attento al mio caso”, dice. C’è un macroproblema: “La procedura civile – dice Cuonzo – è percepita come poco trasparente, riflette un’Italia da mondo agricolo. C’è una produzione eccessiva di atti scritti, spesso superflui e ripetitivi, mentre nella tradizione anglosassone buona parte del procedimento è orale. Un punto molto rilevante è il modo in cui vengono raccolte le testimonianze orali. Nel processo italiano quel che dice il testimone viene riassunto dal giudice senza che vi sia un interrogatorio da parte dei difensori.  Ciò è difficile da comprendere all’estero”.

C’è poi un problema pratico: “L’infrastruttura del tribunale è in condizioni
precarie. Le cause vengono discusse nelle piccole e affollate stanze
dei giudici. Ci sono poche aule per i contenziosi riguardanti le
imprese. E’ difficile proiettare slide o documenti multimediali in
udienza. E’ il regno della carta e dell’informalità; e anche l’estetica
ha un certo peso”, dice Cuonzo i cui clienti sono al 70 per cento
società straniere. “Questo modello va cambiato investendo in maniera
selettiva su due o tre tribunali d’impresa, dei progetti pilota,
fissando quindi dei benchmark verificabili, un po’ quello che dovrebbe
accadere nel mondo universitario. Non serve spargere pochi soldi su
molti tribunali ma concentrarsi su pochi e selezionati tribunali dove si
discutono le cause rilevanti. Basterebbero 100 milioni di euro per
rafforzamento del personale, ristrutturazioni e acquisto materiali”.

Dal punto di vista politico – nota Cuonzo – significa “superare le
resistenze dei piccoli tribunali e far accettare una giustizia a due
velocità secondo l’importanza dei casi, per cui le corporation vengono
prima di un garage conteso. Ci vuole un’azione forte per superare un
egalitarismo che conduce al livellamento nella mediocrità [della
giustizia] per garantire un servizio degno di un paese del capitalismo
avanzato”, dice Cuonzo.


3 - La giustizia che “sente le voci”, di un paesino o delle sue paranoie
Un caso ottocentesco, ma sembra Tutino e Crocetta
di Guido Vitiello – “Il Foglio”  

La giustizia italiana sente le voci. Trattandosi di una paziente
notoriamente schizofrenica, la cosa non stupisce più di tanto. Non
alludo solo al sintomo clinico più recente, la frase che il medico
Tutino potrebbe aver detto o non detto a Crocetta, e che la procura di
Palermo potrebbe aver intercettato o non intercettato: quello è un caso
che lascio a Oliver Sacks. No, il ruolo strabordante delle voci, talora
delle allucinazioni uditive, è una patologia cronica
dell’amministrazione della giustizia, intendendo con questa formula lo
strano rituale sociale che si svolge in molti luoghi (la stampa, la tv, i
social network, i bar, i retrobottega delle redazioni, i corridoi pieni
di spifferi degli uffici giudiziari) e a volte, se avanza tempo,
perfino nei tribunali. Sembra di essere intrappolati nella testa di
Schreber, il malato di nervi su cui Freud affinò la sua teoria della
paranoia, che non per nulla era presidente della Corte d’appello di
Dresda.

E si sente di tutto, in quella cassa di risonanza infernale,
echi e rimbombi, sussurri e grida. I bisbigli senza tregua degli
intercettati, amplificati e distorti dall’intona-rumori dei media; le
interminabili e labirintiche affabulazioni dei pentiti, che si
ramificano, si affastellano, si combinano, si disseminano; o anche – nel
caso più angosciante di tutti, quello di Contrada – le dicerie di
pentiti negromanti che riferiscono le voci accusatorie di mafiosi morti.
Il traguardo minaccioso, forse neppure così lontano se il decorso della
psicosi seguirà il ritmo attuale, potrebbe essere una giustizia
governata unicamente dalle voci, volatili e rapaci, che piomberanno a
stormi sull’uno o l’altro imputato. Congettura spaventosa, è vero, ma
non del tutto inedita; a cercar bene, gli annali offrono un precedente
istruttivo.

E’ il “processo per il misterioso assassinio di Carnago”,
che si svolse alla Corte d’assise di Como nel 1889 (ne offre un
eccellente resoconto Alessandra Fusco nel volume collettivo “Processo
penale e opinione pubblica in Italia tra Otto e Novecento”, edito dal
Mulino). Un caso di duplice omicidio che vide gli unici sospettati, i
coniugi Camuzzi, fatti a brandelli dai pettegolezzi, dalle congetture
giornalistiche e da null’altro. Tutta Carnago (e paesi limitrofi) li
diceva colpevoli, ed è in nome di questo plebiscito che la giustizia fu
amministrata. Le indagini, i rapporti di Pubblica sicurezza, la
requisitoria del pubblico ministero, la sentenza di rinvio a giudizio,
l’atto d’accusa, tutti si rifacevano esplicitamente alla “pubblica
vociferazione” e al “sospetto unanime”. Nella sentenza della sezione
d’accusa di Milano, per esempio, si poteva leggere una frase come
questa: “Considerato che la predetta pubblica opinione venne avvalorata
da molteplici circostanze…”.

Durante il dibattimento a Como il presidente chiese agli imputati: “Come va che l’opinione pubblica vi accusa con tanta insistenza?”; e il pubblico ministero così sollecitava i testimoni: “Potete citare qualche persona conosciuta che creda nell’innocenza dei Camuzzi?”. Errore o non errore, fu un processo di sole voci, che generarono una duplice condanna ai lavori forzati a vita.
Ricordatevi del povero fornaretto, certo, ma pure del processo di

Carnago.

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