Cari lettori, ecco a voi un’altra fiaba famosa, e cioè LA BELLA E
LA BESTIA. La
versione riportata è la traduzione di Carlo Collodi presente ne "I
racconti delle fate", dal testo di Perrault (ma la fiaba ha diverse
origini: Apuleio, Straparola, Basile, Jeanne-Marie Leprince di Beaumont, che la
rese popolare, e molti altri, come descritto più avanti).
E, come al solito, un po’ di analisi.
Buona lettura.
M. D’ANGELO
LA BELLA E LA
BESTIA - di Charles Perrault (traduzione di Carlo Collodi)
PRIMA PARTE
C'era una
volta un mercante che era ricco sfondato. Aveva sei figliuoli, tre maschi e tre
femmine; e siccome era un uomo che sapeva il vivere del mondo, non risparmiò
nulla per educarli e diede loro ogni sorta di maestri. Le sue figlie erano
bellissime: la minore soprattutto era una maraviglia, e da piccola la
chiamavano la bella bambina, e di qui le rimase il soprannome di
Bella, che fu
poi cagione di gran gelosia per le sue sorelle.
Questa
figlia minore, oltr'essere la più bella, era anche la più buona delle altre.
Le due
maggiori, perché erano ricche, avevano molto fumo; si davano l'aria di grandi
signore, e non gradivano la compagnia delle figlie degli altri negozianti, ma
se la dicevano soltanto col nobilume.
Andavano
dappertutto: ai balli, alle commedie, alle passeggiate; e si ridevano della
sorella minore, perché spendeva una gran parte del suo tempo nella lettura dei
buoni libri.
E perché
si sapeva che erano molto ricche, parecchi negozianti, di quelli grossi
davvero, le chiesero in mogli; ma la maggiore e la seconda dissero chiaro e
tondo che non si sarebbero mai maritate, se non fosse capitato loro un Duca o a
dir poco un Conte.
La Bella (oramai vi ho detto che questo era il nome), la
Bella, dunque, ringraziò con molta buona maniera coloro che volevano sposarla:
e disse che era troppo giovane e che voleva tener compagnia ancora per qualche
anno al suo genitore.
Quand'ecco che tutto a un tratto il mercante fece un gran
fallimento e non gli rimase altro che una piccola casa assai lontana dalla
città. Disse allora ai suoi figli, colle lacrime agli occhi, che bisognava
rassegnarsi e andare ad abitare in quella casetta dove, mettendosi tutti a fare
i contadini, avrebbero potuto campare e tirarsi avanti.
Le due
ragazze più anziane risposero che non volevano saperne nulla di lasciare la
città, dov'avevano molti amanti (non nel senso moderno, ma nel senso di
spasimanti), ai quali non sarebbe parso vero di poterle sposare, anche
senza un soldo di dote (almeno così è quello che ripetevano loro alle
fanciulle).
Ma le
povere figliuole s'ingannavano all'ingrosso perché, quando furono povere, tutti
i loro amanti girarono largo. E siccome, a motivo della loro superbia, non
erano in generale ben vedute, cosi dicevano tutti: "Non meritano compassione:
è giusta che abbiano dovuto ripiegare le corna (noi diremmo “abbassare la
cresta”); che vadano ora a fare le grandi signore dietro le pecore e i
montoni!".
Ma nel
tempo stesso tutti dicevano: "Quanto alla Bella, ci rincresce proprio
della sua disgrazia: è una gran buona figliuola! è così alla mano coi poveri, e
tanto amorosa e gentile!".
Ci furono
fra gli altri parecchi gentiluomini che la volevano sposare, sebbene non avesse
più un soldo di dote: ma essa disse che non sapeva risolversi a lasciare il suo
povero padre nella disgrazia, e che sarebbe andata con lui fra i campi, per
consolarlo e dargli una mano nelle fatiche.
La povera
Bella, da principio, era rimasta molto male dell'aver perduto ogni ben di
fortuna; ma poi si consolò col dire fra sé e sé: "Quand'anche mi
struggessi dal pianto, non varrebbe a farmi ricattare quello che ho perso:
dunque è meglio cercare di essere felici, anche senza un centesimo in
tasca".
Appena
arrivati alla casa di campagna, il mercante e le sue tre figlie si dettero
subito a lavorare i campi.
La Bella
si alzava la mattina alle quattro, avanti giorno, e si dava il pensiero di
ripulir la casa e di preparare la colazione e il desinare per la famiglia.
Sul primo
ci pativa un poco, perché non era avvezza a strapazzarsi come una serva: ma di
lì in capo a due mesi si fece più robusta e, faticando tutto il giorno,
acquistò una salute di ferro.
Quando
aveva finite le sue faccende, si metteva a leggere o a suonare la spinetta (una
sorta di pianola): o anche canterellava e filava.
Le sue
sorelle, invece, s'annoiavano da non averne idea: si levavano alle dieci della
mattina, girellavano tutto il giorno e trovavano una specie di svago a
rimpiangere i bei vestiti e la bella società di una volta.
"Guarda
un po'", dicevano fra loro, "come è stupida la nostra sorella minore:
e che caratteraccio triviale ! Essa è contenta come una pasqua di trovarsi
nella sua disgraziata condizione!..."
Ma il buon
mercante non la pensava così. Egli sapeva che Bella aveva molto più garbo delle
sue sorelle a fare spicco in società: e ammirava la virtù di questa giovinetta
e segnatamente la sua rassegnazione; perché bisogna sapere che le sue sorelle,
non contente di buttare addosso a lei tutte le faccende della casa, la
punzecchiavano continuamente con mille parole insolenti (non vi ricorda, già
dall’inizio, il rapporto tra Cenerentola e le sue sorellastre?).
Era corso
un anno dacché questa famiglia viveva lontana dalla città, quando il mercante
ebbe una lettera nella quale gli si diceva che un bastimento, carico di
mercanzie, di sua proprietà, era arrivato felicemente!
Ci scattò
poco che questa notizia non facesse dar la balta al cervello alle due ragazze
maggiori, le quali speravano così di poter lasciare la campagna, dove morivano
dalla noia: e quando videro il padre sul punto di partire, lo pregarono che
portasse loro dei vestiti, delle mantelline, dei cappellini e altri gingilli di
moda.
La Bella
non gli chiese nulla, perché aveva già capito che tutto il valsente delle merci
arrivate non sarebbe bastato a contentare i capricci delle sue sorelle.
"E tu
non vuoi che ti compri nulla?", le disse suo padre.
"Poiché
siete tanto buono da pensare a me", ella rispose, "fatemi il piacere
di portarmi una rosa: che in questi posti non ci fanno."
Non vuol
dir già che alla Bella premesse la rosa: ma lo fece, per non criticare col suo
esempio la condotta delle sorelle; le quali avrebbero detto che non chiedeva
nulla, per farsi distinguere e dar nell'occhio.
Il buon
uomo partì, ma appena giunto, ebbe a sostenere un processo a causa delle sue
mercanzie: e dopo mille seccature, se ne tornò indietro più povero di prima.
Gli
restavano da fare non più di trenta miglia per arrivare a casa, e già si
consolava nel pensiero di rivedere la sua famigliola; ma dovendo traversare un
gran bosco, si smarrì e perdé la strada.
La neve
fioccava da far paura, e soffiava un vento così strapazzone, che lo gettò per
due volte giù da cavallo. Venuta la notte, egli cominciò a credere di dover
morire o di fame e di freddo, o divorato dai lupi, che si sentivano urlare a
poca distanza.
Quando a
un tratto, nel voltar l'occhio verso il fondo di una lunga sfilata d'alberi,
vide una gran fiamma che pareva lontana lontana.
S'avviò da
quella parte, e poté distinguere che quella luce usciva da un gran palazzo, che
era tutto illuminato.
Il
mercante ringraziò il cielo del soccorso mandatogli e si affrettò per giungere
a questo castello; ma rimase grandemente stupito di non trovarci anima viva.
Il suo
cavallo, che gli andava dietro, avendo visto una bella scuderia aperta, entrò
dentro; e trovatovi fieno e biada, il povero animale, che moriva di fame, vi si
buttò sopra con grandissima avidità.
Il
mercante lo legò alla greppia: e s'avviò verso la casa, dove non trovò nessuno.
Ma entrato che fu in una gran sala, vi trovò un bel fuoco acceso, una tavola
apparecchiata e con molte pietanze: ma c'era una posata sola.
Essendo
bagnato fino al midollo dell'ossa, per la neve e la molt'acqua che aveva preso,
si avvicinò al fuoco per asciugarsi, dicendo fra sé: "Il padrone di casa e
i suoi domestici mi scuseranno della libertà che mi prendo! Sono sicuro che
staranno poco ad arrivare".
Aspetta,
aspetta e nessuno veniva: finché suonarono le undici e ancora non s'era visto
alcuno. Allora non potendo più stare alle mosse, dalla gran fame prese un
pollastro e, tremando dalla paura, lo mangiò in due bocconi.
Bevve
anche qualche sorso di vino, e messo su un po' di coraggio, uscì dalla sala e
traversò molti quartieri (stanze) splendidamente tappezzati e ammobiliati.
Alla fine trovò una camera dove c'era un buon letto: e perché era mezzanotte
suonata e si sentiva stanco morto, prese il partito di chiuder l'uscio e di
coricarsi.
La mattina
dopo si svegliò verso le dieci: e figuratevi come rimase, quando trovò un vestito
molto decente nel posto dove aveva lasciato il suo, che era tutto logoro e
cascava a pezzi.
"Si vede bene", egli disse, "che in questo
palazzo ci sta di casa qualche buona fata, che si è mossa a compassione di
me."
Si
affacciò alla finestra e non vide più un filo di neve, ma pergolati di
bellissimi fiori, che innamoravano soltanto a guardarli.
Ritornò
nella gran sala, dove la sera avanti aveva cenato e vide una piccola tavola,
con sopra una chicchera (tazza) e un vaso di cioccolata.
"Grazie
tante", diss'egli a voce alta, "grazie tante, signora fata, della
garbatezza di aver pensato alla mia colazione."
Il buon
uomo, quand'ebbe preso la cioccolata, uscì per andare dal suo cavallo; e
passando sotto un pergolato di rose si ricordò che la Bella gliene aveva
chiesta una, e staccò un tralcio dove ce n'erano parecchie bell'e sbocciate.
In quel
punto stesso sentì un gran rumore e vide venirsi incontro una bestia così
spaventosa, che ci corse poco non cascasse svenuto:
"Voi siete molto ingrato", disse la Bestia con una voce da far rabbrividire, "vi ho salvato la vita accogliendovi nel mio castello, e
in ricambio voi mi rubate le mie rose, che è per l’appunto la cosa che io amo
soprattutto in questo mondo. Per riparare al mal fatto non vi resta altro che morire:
vi do tempo un quarto d’ora per chiedere perdono a Dio”.
Il
mercante si gettò in ginocchio e a mani giunte prese a dire alla Bestia:
"Monsignore,
perdonatemi: non credevo davvero di offendervi a cogliere una rosa per una
delle mie figlie, che me l'aveva domandata".
"Non mi chiamo Monsignore", rispose il mostro, "ma Bestia. I complimenti non fanno per
me; io voglio che ognuno parli come la pensa: per cui non vi mettete in capo
d'intenerirmi colle vostre moine. Mi avete detto che avete delle figliuole:
ebbene, io potrò perdonarvi a patto che una di codeste figliuole venga qui a
morire volontariamente nel posto vostro. Non una parola di più; partite, e caso
le vostre figlie ricusassero di morire per voi, giurate che dentro tre mesi
ritornerete."
Quel
pover'uomo non aveva punta intenzione di sacrificare alcuna delle sue figlie al
brutto mostro, ma pensò dentro di sé: "Non foss'altro avrò almeno la
consolazione di poterle abbracciare un'altra volta".
Fece giuro
di tornare, e la Bestia gli disse che poteva partire a piacer suo. "Ma non voglio", soggiunge, "che tu debba andartene colle mani vuote.
Ritorna nella camera dove hai dormito; ci troverai un gran baule vuoto; ché io
penserò a fartelo portare fino a casa."
Detto
questo, la Bestia se ne andò, e il buon uomo disse fra sé e sé: "Almeno,
se ho da morire, potrò lasciare un boccon di pane a' miei poveri ragazzi".
E tornò
nella camera dove aveva dormito, e avendovi trovato delle monete d'oro a
corbellino (ceste,cioè una gran quantità), ne empì il baule, di cui gli
aveva parlato la Bestia: quindi lo chiuse, e ripreso il cavallo lasciato nella
scuderia, uscì dal palazzo con tanto malessere addosso, quanta era la gioia
colla quale vi era entrato. Il cavallo prese da sé uno dei viottoli della
foresta, e in poche ore il buon uomo arrivò alla sua casetta. I suoi figli gli
furono tutti d'intorno: ma invece di mostrarsi lieto alle loro carezze, il
mercante li guardava e gli cascavano i lacrimoni dagli occhi. Egli aveva in
mano il tralcio di rose, che portava a Bella: e nel darglielo, disse:
"Bella, pigliate queste rose: ma costeranno molto care al vostro povero
padre!".
E così
raccontò alla famiglia il brutto caso che gli era capitato.
A quella
storia le due sorelle maggiori si messero a berciare e dissero mille cosacce a
Bella, la quale non piangeva né punto né poco.
"Ecco
le conseguenze", esse dicevano, "dell'orgoglio di questa monella:
perché anche lei non fece come noi e non chiese dei vestiti? Nient'affatto! la
signorina voleva distinguersi. E ora è lei la cagione della morte di suo padre
e non se ne fa né in qua né in là."
"Sarebbe
inutile", soggiunse Bella, "e perché dovrei piangere la morte di mio
padre? Egli non morirà una volta che il mostro si contenta di accettare in
cambio una delle sue figlie; io voglio mettermi in balìa del suo furore: e sono
molto felice, perché così potrò avere la contentezza di salvare il padre mio e
di provargli il gran bene che gli ho sempre voluto."
"No,
sorella mia", le dissero i suoi tre fratelli, "tu non morirai: noi
anderemo a trovare il mostro, e periremo sotto i suoi colpi, se non saremo
buoni di ucciderlo."
"Non
lo sperate, ragazzi miei", disse loro il mercante, "la potenza di
questa Bestia è così sterminata, che non c'è caso di poterla uccidere. Mi fa
una vera consolazione il buon cuore di Bella: ma non voglio mandarla a morire.
Io son vecchio; non mi resta che poco tempo da vivere; così, male che vada,
posso scorciarmi di qualche anno la vita; cosa che non rimpiango punto, perché
lo faccio per amor vostro, miei cari figliuoli."
"Vi
do la mia parola, padre mio", disse Bella, "che voi non anderete a
quel palazzo, senza di me: voi non mi potete impedire di seguirvi. Sebbene
giovane, io non sono molto attaccata alla vita, e preferisco esser divorata da
quel mostro, che morire dalla pena che mi farebbe la vostra perdita."
Ebbero un
bel dire, ma la Bella volle a ogni costo partire anche lei per il palazzo del
mostro; e alle sorelle non parve vero, perché si rodevano di gelosia per le
belle doti della sorella minore.
Il mercante
era così stonato dal dolore di dover perdere la figlia, che non gli passò per
il capo neppure il baule che egli aveva riempito di monete d'oro.
Ma appena
fu in camera restò grandemente stupito di trovarlo al piè del letto. Risolvette
di non dir nulla in casa di essere diventato ricco, per paura che le figlie si
mettessero in testa di voler tornare in città, mentre egli aveva fatto conto di
voler morire in quella campagna. Peraltro confidò il segreto a Bella, la quale
gli raccontò come nel tempo che era stato lontano, alcuni gentiluomini fossero
venuti per casa e come, fra questi, ve ne fossero due che amoreggiavano colle
sue sorelle. Si raccomandò al padre che le maritasse; perché essa era tanto
buona di cuore, che le amava tutte e due, e perdonava loro tutto il male che le
avevano fatto.
Quelle due
cattive si strofinarono gli occhi colla cipolla per farsi venire i lucciconi,
al momento che Bella partì con suo padre: ma i fratelli piangevano davvero: e
anche il mercante. La sola che non piangesse era Bella, la quale non voleva
inciprignire (aumentare) il dolore di tutti gli altri.
Il cavallo
prese la via del palazzo, e sul far della sera cominciarono di lontano a
vederlo illuminato, tale e quale come la prima volta.
Il cavallo
andò da sé solo nella scuderia: e il buon uomo entrò con sua figlia nella gran
sala, dove trovarono una gran tavola magnificamente apparecchiata per due.
Il
mercante non sapeva da che verso rifarsi per mangiare; ma la Bella, sforzandosi
di parer tranquilla, si messe a tavola e lo servì: poi diceva dentro di sé:
"Capisco
bene che la Bestia vuole ingrassarmi prima di far di me un boccone! me
n'accorgo dalla maniera con cui mi tratta".
Quand'ebbero
cenato, udirono un gran fracasso e il mercante, colle lagrime agli occhi, disse
addio alla sua povera figlia, perché sapeva che la Bestia era lì lì per
arrivare.
La Bella,
alla vista di quell'orribile figura, sentì fare un cavallone al sangue: ma
s'ingegnò di non darlo a divedere: e quando il mostro le domandò s'era venuta
da lui volentieri, rispose con voce tremante di sì.
"Davvero che siete molto buona", disse la Bestia, "e io vi sono riconoscentissimo. Buon
uomo! domani partirete, e Dio vi guardi dal tornare in questo luogo. Addio,
Bella."
"Addio,
Bestia", ella rispose.
E il mostro
sparì.
"Oh !
figlia mia", disse il mercante abbracciandola e baciandola, "io son
mezzo morto dalla paura. Fai a modo mio; lasciami morir qui."
"No,
padre mio", rispose la Bella con fermezza, "voi partirete domani
mattina, e mi abbandonerete all'aiuto del cielo. Il cielo forse avrà
compassione di me!..."
L'uno e l'altro andarono a letto, coll'idea che in tutta
la notte non sarebbero stati buoni a chiudere un occhio, ma invece, appena si
furono coricati nei loro letti, si addormentarono come ghiri. E la Bella vide
in sogno una Regina, la quale le disse:
"O
Bella, io son contenta del vostro buon cuore. La nobile azione che fate, dando
la vita per quella di vostro padre, non rimarrà senza premio".
Quando la
Bella si svegliò, raccontò il sogno a suo padre, e sebbene questa cosa lo
rinfrancasse un poco, non bastò peraltro a trattenerlo dal dare in grandissimi
pianti, quando gli fu forza staccarsi dalla sua figlia adorata.
Partito
che fu, la Bella andò a sedersi nella gran sala; e anche essa cominciò a piangere;
ma essendo molto coraggiosa, si raccomandò a Dio e fece conto di non darsi
tanto alla disperazione per quel poco di tempo che le restava ancora da vivere:
perché ella credeva fermamente che la Bestia sarebbe venuta a mangiarla nella
serata.
Intanto,
mentre aspettava, pensò bene di girare e di visitare il castello, del quale non
poteva starsi dall'ammirare le grandi bellezze.
E
figuratevi se rimase a bocca aperta, quando vide una porta sulla quale c'era
scritto: Quartiere (stanza) della Bella.
Aprì in
fretta e in furia questa porta e fu abbagliata dalle magnificenze che vi erano
dentro; ma ciò che maggiormente la colpì, fu la vista di una gran biblioteca,
di un clavicembalo e di molti quaderni di musica.
"Si
vede proprio che non vogliono che io mi annoi", disse fra sé e sé; quindi
pensò:
"Se
io dovessi albergare qui un giorno solamente, non mi avrebbero ammannito tutte
queste belle cose".
Questo
pensiero rianimò il suo coraggio. Ella aprì la biblioteca e vide un libro sul
quale era scritto a lettere d'oro: "Desiderate e comandate; voi siete qui
signora e padrona!...".
"Meschina
me!", diss'ella, "io non ho altro desiderio che di vedere il mio
povero padre e di sapere che cos'è di lui in questo momento! "
Queste
parole le aveva dette dentro di sé, ma quale non fu il suo stupore, quando
gettando gli occhi sopra uno specchio, vi mirò la sua casa, e per l'appunto in
quel momento in cui vi giungeva suo padre con un viso da far pietà. Le sue
sorelle gli andavano incontro; e malgrado le smorfie che facevano per parere
afflitte, mostravano sul viso e a fior di pelle la contentezza provata per la
perdita della loro sorella.
Dopo un
minuto sparì ogni cosa, ma la Bella non poté far di meno di pensare che la
Bestia era molto compiacente, e che non aveva nulla da temere da essa.
A
mezzogiorno trovò la tavola bell'e apparecchiata: e durante il pranzo udì
un'eccellente musica, senza che potesse vedere alcuno.
La sera
mentre stava per mettersi a tavola, sentì il fracasso che faceva la Bestia e fu
presa da un tremito di paura:
"Bella", le
disse il mostro, "siete contenta che io stia a vedervi mentre
cenate?".
"Non
siete voi il padrone?", rispose la Bella, tremando.
"No", replicò
la Bestia, "qui non c'è altri padroni che voi; se vi sono importuno, non dovete
far altro che dirmelo e me ne anderò subito. Ditemi una cosa: non è vero che io
vi sembro molto brutto?"
"»
vero, sì", rispose Bella, "perché io non sono avvezza di dire una
cosa per un'altra; peraltro vi credo buonissimo di cuore."
"Avete ragione", disse il mostro, "ma oltre all'essere brutto io non ho
punto spirito, e so benissimo d'essere una Bestia."
"Non
è mai una Bestia", rispose Bella, "colui che crede di non avere
spirito. Gl'imbecilli non arriveranno mai a capire questa cosa."
"Su dunque, mangiate, Bella", le disse il mostro, "e cercate tutti i mezzi per non
annoiarvi nella vostra casa: perché tutto quello che vedete qui, è roba vostra:
e io sarei mortificato se non vi sapessi contenta."
"Voi
avete molta bontà per me", disse la Bella, "e sono contentissima del
vostro cuore: quando ci penso non mi sembrate nemmeno tanto brutto."
"Oh! per questo", rispose la Bestia, "il cuore è buono: ma io sono un
mostro!"
"Conosco
degli uomini che sono più mostri di voi", disse Bella, "e quanto a
me, mi piacete più voi con codesta vostra figura, di tant'altri che, sotto
l'aspetto d'uomo, nascondono un cuore falso, corrotto e sconoscente."
"Se avessi un po' di spirito", disse la Bestia, "farei un complimento per ringraziarvi:
ma io sono uno stupido; e tutto quel che posso dirvi è che vi sono
obbligato."
La Bella
cenò di buon appetito. Essa non aveva quasi più paura del mostro; ma fu lì lì
per morire di spavento, quando egli le disse: "Bella, volete esser mia moglie?".
Ella
stette un po' di tempo senza rispondere: aveva paura di svegliare la collera
del mostro con un rifiuto; a ogni modo disse con voce tremante:
"No, Bestia".
A questa
risposta il povero mostro volle mandar fuori un sospiro e gli venne fatto un
sibilo così spaventoso, che ne rintronò tutto il palazzo.
Ma la
Bella fu presto rassicurata, perché la Bestia, dopo averle detto "addio, dunque, Bella", uscì dalla camera voltandosi indietro tre o
quattro volte per poterla ancora vedere.
Quando la
Bella fu sola cominciò a sentire una gran compassione per la povera Bestia, e
diceva: "Che peccato che sia così brutta, mentre sarebbe tanto
buona!".
La Bella,
per tre mesi, menò in questo palazzo una vita abbastanza tranquilla.
Tutte le
sere la Bestia andava a farle visita, e durante la cena si tratteneva con lei,
facendo mostra di molto buon senso, ma giammai di ciò che si chiama spirito fra
le persone del mondo galante. Ogni giorno che passava, la Bella scopriva nuovi
pregi nel mostro. A furia di vederlo, aveva fatto l'occhio alle sue bruttezze,
e invece di temere il momento della sua visita, ella guardava spesso l'orologio
per vedere quanto mancava alle nove, perché la Bestia a quell'ora era sempre
precisa.
Una sola
cosa metteva di mal umore la Bella; ed era che tutte le sere, avanti di andare
a letto, il mostro le domandava se voleva essere sua moglie, e rimaneva
mortificatissimo quand'essa rispondeva di no.
Ella disse
un giorno: "Voi mi fate una gran pena, Bestia; vorrei potervi sposare, ma
sono troppo sincera per darvi a sperare una cosa che non sarà mai. Io sarò
sempre vostra buon'amica. Contentatevi di questo".
"Per forza!" rispose
la Bestia. "Io son giusto. Io so che sono orrendo: ma vi voglio un gran bene. A
ogni modo, io mi chiamo abbastanza fortunato se vi adattate a restar qui:
promettetemi che non mi lascerete mai."
La Bella a
queste parole fece il viso rosso. Ella aveva visto nello specchio che suo padre
era malato dal dolore di averla perduta, e desiderava rivederlo. "Io
potrei benissimo promettervi" diss'ella alla Bestia "di non lasciarvi
più per sempre; ma mi struggo tanto di rivedere il padre mio, che morirei di
crepacuore se mi rifiutaste questo piacere."
(CONTINUA…)
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