LA GENERAZIONE DEL NULLA – “Il silenzio degli esaminandi”
Negli ultimi decenni si è assistito a una trasformazione profonda del tessuto sociale italiano - viviamo, infatti, un tempo in cui l’identità dei giovani appare sempre più fragile, sempre più smarrita, emergono nuove forme di disagio che si esprimono tramite la violenza gratuita, il tribalismo urbano, l’autoesaltazione di gruppo. Si parla sempre più spesso della “generazione del nulla” — un’espressione amara ma, purtroppo, sempre più calzante. È una generazione che, ha perso i riferimenti fondamentali che per secoli hanno costituito l’ossatura di ogni comunità: la famiglia, il rispetto, l’autorità, l’educazione. E con essi è svanito anche quel senso del limite che un tempo si apprendeva quasi per osmosi, attraverso le occhiate, i silenzi e le correzioni di chi ci stava accanto. Oggi vediamo ragazzi che si affrontano con i coltelli per uno sguardo di troppo, per una parola detta o mal interpretata, come se la strada fosse un’arena e ogni diverbio un’occasione per dimostrare forza e dominio. Le baby gang crescono in numero e violenza, alimentate da un senso distorto dell’onore, da modelli presi in prestito dalla musica più degradata, dove la prepotenza diventa stile, l’arroganza viene premiata, l’aggressività esibita come un trofeo.
È lo stesso meccanismo che anima le curve degli stadi, dove orde di ultras si fronteggiano per una bandiera, una maglia, un territorio simbolico. Anche lì, lo scontro sostituisce il pensiero, la vendetta prende il posto dell’ideale. Ma almeno — verrebbe da dire con un filo d’amarezza — un tempo ci si batteva per un’idea. Erano sbagliate, forse, o male indirizzate, ma c’erano. Noi, che siamo cresciuti negli anni delle tensioni ideologiche, dei cortei, delle grandi domande politiche ed esistenziali, abbiamo visto la violenza, si, ma anche la passione. Abbiamo rischiato, forse troppo, ma per qualcosa che credevamo importante. Oggi si rischia e si fa male per un like, per un’effimera supremazia su TikTok.
Alla già preoccupante crisi dell’istruzione e della cultura si aggiunge un altro elemento decisivo: la confusione ideologica, alimentata da un uso distorto del linguaggio e da una comunicazione mediatica sempre più superficiale e manipolatoria. Il linguaggio, che dovrebbe essere veicolo di riflessione e strumento di confronto, viene oggi piegato alla logica dell’indignazione istantanea. L’approfondimento cede il passo all’emozione, lo studio all’urlo, il ragionamento al riflesso condizionato. L’informazione diventa spettacolo e il dibattito pubblico si trasforma in un’arena dove vince chi alza di più la voce, non chi porta argomenti solidi. In questo contesto, le parole non educano: disarmano. E chi è privo degli strumenti critici — in particolare i più giovani — non ha difese davanti alla forza suggestiva dello slogan. E così, argomenti di estrema importanza giuridica, storica e sociale vengono banalizzati da un sistema mediatico che privilegia la rapidità alla verità, la viralità alla responsabilità. L’effetto di questa continua esposizione a una semplificazione tossica è devastante: si disabitua al pensiero complesso, si riduce la capacità di distinguere una vera ingiustizia da una rappresentazione ideologica, e si genera una gioventù che confonde l’attivismo con il conformismo emotivo, il giudizio con il pregiudizio.
Parallelamente, assistiamo alla normalizzazione della violenza nei comportamenti quotidiani: il bullismo — un tempo relegato a dinamiche scolastiche marginali — si manifesta oggi anche tra le ragazze, con episodi filmati e diffusi sui social, in una sorta di feroce esibizionismo tribale. Sono scene che rivelano non solo un crollo dei freni morali, ma anche un bisogno disperato di affermazione che trova sfogo nella sopraffazione anziché nel dialogo. A questo si somma l’effetto più insidioso della retorica politica nella sua accezione peggiore: quella semplificazione strategica e propagandistica che mira a provocare reazioni istintive anziché favorire il pensiero. È un linguaggio che non illumina, ma dirige; non spiega, ma comanda. E trova terreno fertilissimo nei giovani, che crescono in un contesto dove il dubbio è sospetto e la complessità è vista come una debolezza. Il risultato è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere con onestà: una generazione disorientata, facilmente strumentalizzabile, educata più a rispondere agli stimoli che a comprenderli. E mentre il dialogo cede il passo alla semplificazione ideologica, l’educazione si riduce a una forma di addomesticamento, in cui si insegna cosa pensare, non come pensare. In questo scenario, la necessità di una svolta — culturale, linguistica, etica — non è un compito tra gli altri: è una priorità civile.
E poi ci sono i “maranza”, nuova sottocultura giovanile fatta di ostentazione, sfida e nichilismo. Ragazzi spesso immigrati di seconda generazione, nati in Italia ma cresciuti coltivando un profondo risentimento verso il Paese che li ha accolti. Non si riconoscono nella cultura ospitante e adottandone i simboli più deteriori, rifiutano l’integrazione, reagiscono con un disprezzo, spesso alimentato da un senso di rivalsa mal indirizzato. Si muovono in branco, forti coi deboli, sprezzanti verso ogni forma di autorità. Nessuna regola, nessuna misura. Solo la legge del più prepotente. Il ruolo dei media e in particolare della cosiddetta “trap culture”, è decisivo. Certi filoni del rap contemporaneo, promuovono un immaginario venefico: violenza gratuita, misoginia, disprezzo per le istituzioni, culto del denaro facile. È una rappresentazione iperbolica dell’“homo oeconomicus” moderno, già descritto con preveggenza da Pier Paolo Pasolini come un “nuovo fascismo” consumista, più subdolo e capillare di quello storico. La figura del “maranza”, adolescente stereotipato dall’aspetto ostentato e dall’atteggiamento provocatorio, nasce e si nutre proprio di questo contesto. È l’archetipo del giovane senza appartenenza che trasforma il rancore in identità, la sfida in posa. La cultura digitale, con il suo narcisismo patologico e la continua ricerca di visibilità, ne completa il quadro.
Di fronte ai loro proclami violenti e ai video, che testimoniano l’impunità del loro agire, che li ritraggono mentre insultano gli italiani e l’Italia che li ha accolti e che garantisce loro diritti, istruzione e assistenza – è necessario rispondere con fermezza e lucidità. Non bastano le analisi sociologiche né le indulgenze paternalistiche. Non basta la retorica dell’inclusione se manca il rispetto per le regole comuni. Non basta comprendere se non si pretende responsabilità. Serve un’autorità educativa, culturale e anche istituzionale lontana dalle contaminazioni ideologiche che sappia farsi rispettare. Occorre riaffermare i confini di ciò che è accettabile e ciò che non lo è. E se non dovesse bastare, scusate la franchezza, bisognerebbe agire con la giusta severità - perché una società che rinuncia a difendere sé stessa nel nome di un relativismo malinteso, finisce per abdicare non solo alla legalità, ma alla propria civiltà.
In tutto questo, la scuola arranca, svuotata di autorevolezza. L’impegno è visto come una stranezza, il merito come un fastidio, il sapere come una reliquia. Si parla, anzi si chiacchiera, ma non si dialoga. Il confronto è diventato battibecco, la libertà d’espressione si confonde con l’insulto. È il trionfo della sciatteria, della frase fatta, del meme. Una società che ha rinunciato a educare è una società che si prepara al proprio declino. Intanto la scuola, che dovrebbe essere argine e strumento di riscatto, appare sempre più disarmata, i livelli di comprensione del testo tra gli adolescenti italiani sono in calo e l’autorità dell’insegnante è messa quotidianamente in discussione, il merito viene confuso con il privilegio, lo studio con l’oppressione. Viviamo in una società che ha sostituito il dialogo con la rissa verbale, la formazione con l’intrattenimento, la comunità con la tribù digitale. In questo scenario di regressione mascherata da progresso, l’atto più urgente – e ormai dovuto – è tornare a educare, che, non significa proteggere dalla realtà, come spesso si crede, ma offrire strumenti per affrontarla: spirito critico, senso del limite, consapevolezza storica, capacità di discernimento. Istruire è trasmettere valori autentici, idee forti, e soprattutto esempi credibili. Tutto ciò che oggi, purtroppo, manca.
Le cronache degli ultimi giorni ci restituiscono una fotografia desolante del livello scolastico raggiunto in molte realtà del Paese. Scene mute durante gli esami di Stato, alunni che si rifiutano di rispondere , per “mancanza di empatia con il corpo docente”, oppure, per “eccessiva competitività”. Colloqui orali trasformati in silenzi imbarazzanti: una serie di episodi che taluni interpretano semplicisticamente come rivendicazioni, ma che a detta di molti sono, invece, l’ultimo escamotage per mascherare l’impreparazione - e l’esito, paradossalmente, è la promozione. Immeritata, ma garantita. Ciò che dovrebbe essere il momento conclusivo di un percorso formativo, l’esame, si è ormai trasformato in un atto formale, svuotato di significato. La scuola, da luogo di confronto e crescita, si è ridotta in molti casi a una procedura da adempiere, con l’unico obiettivo di non creare disagi. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: fuori dai colloqui si ascoltano strafalcioni che non suscitano più indignazione, ma solo rassegnazione o sarcasmo. D’Annunzio viene definito un estetista, Hitler come un premio Nobel per la pace e in Italia, secondo alcuni studenti, vige ancora la monarchia.
Ma il problema non si limita agli studenti. Ancor più grave è la constatazione che anche parte del corpo docente, proprio nei momenti decisivi della valutazione, mostri lacune macroscopiche. Si è parlato — e con ragione — del caso di una commissaria d’arte che posticipa di dieci anni la nascita del Futurismo, e che, corretta da un collega, non solo rifiuta l’errore, ma avvia una lite davanti all’esaminando, in un delirio pedagogico che rivela quanto si sia perso il senso della responsabilità e del ruolo educativo. E che dire del commissario d’inglese che attribuisce a Charles Dickens “Il ritratto di Dorian Gray”? Una gaffe che non può essere sottotaciuta, perché testimonia il collasso di ogni affidabilità formativa.
Non si tratta di casi isolati, ma dell’indizio di un sistema degenerato, dove il merito è deriso, la preparazione considerata opzionale, e la cultura un fardello. Una scuola che promuove per quieto vivere, che tollera l’ignoranza per evitare conflitti, che celebra la mediocrità in nome dell’inclusione malintesa, è una scuola che tradisce la propria missione originaria. C’è necessità di una scuola esigente, non condiscendente -. Una scuola che non tema di correggere, di bocciare se necessario, di mettere alla prova. Istruire non è fare compagnia ai giovani, è guidarli, anche con la giusta severità quando serve.
Giuseppe Arlotta
16 luglio 2025
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